Marco Giusti per Dagospia
Killers of the Flower Moon
“Riconosci i lupi nell’immagine?”, chiede lo Zio Bill di Robert De Niro allo stupido nipote Ernest di Leonardo Di Caprio appena tornato dalla Grande Guerra. Da quanti anni Martin Scorsese riempie le sue immagini di lupi assetati di sangue e potere?
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Alla fine di questo sontuoso, potente, un po’ pesante, ma comunque bellissimo “Killers of the Flower Moon”, colosso da 200 milioni di dollari di budget girato con una crew di vecchi amici ottantenni, dalla montatrice di sempre, Thelma Schoonmaker, allo sceneggiatore Eric Roth, dallo scenografo Jack Fisk al musicista Robbie Robertson, scomparso a due mesi dalla prima proiezione a Cannes del film, assistiamo a una messa in scena radiofonica sponsorizzata dalla appena nata F.B.I di J. Edgar Hoover del true-crime dedicato agli omicidi della Osage County che coinvolge lo stesso Scorsese e ci dice come andarono a finire le cose.
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Come se col celebre caso delle tante e misteriose morti dei nativi Osage in Oklahoma, omicidi dettati dall’avidità dei bianchi per il petrolio che gli indiani trovarono casualmente nelle loro terre brulle, Scorsese ragionasse in realtà su tutto lo storytelling, sui meccanismi di racconto dei true-crime americani e, quindi, sul suo stesso cinema fatto più di lupi che di pecore. Ma solo con i lupi arrivi fino in fondo alla realtà americana. Col suo razzismo, col suo capitalismo e con la sua stupidità.
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La scelta spiazzante di Leonardo Di Caprio di non interpretare nel film quello che era il vero protagonista già nel romanzo di David Grann, cioè il Texas Ranger Tom White del Bureau di J. Edgard Hoover che diventerà l’F.B.I., ma lo stupido reduce, cuoco della fanteria, Ernest Burkhart, nipote e schiavo del potente e cattivissimo William “King” Hale di Robert De Niro, che domina con una falsa gentilezza e un ben più consistente terrore il territorio indiano, nonché marito di Mollie Kyle, interpretata dalla strepitosa Lily Gladstone (“First Cow”), proprietaria assieme alla madre e alle sorelle di una ricca concessione petrolifera, ha rovesciato totalmente il progetto originario.
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L’investigatore Tom White, interpretato qui da Jesse Plemons con la giusta autorevolezza, non sarà più né protagonista, entra in scena solo dopo due ore, né il narratore della storia dei terribili delitti della comunità bianca nei confronti dei nativi che il petrolio ha reso incredibilmente ricchi e quindi agnelli da sacrificare per soddisfare l’avidità capitalistica di Zio Bill e delle compagnie petrolifere. No.
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Scorsese e Roth sono obbligati a stringere il racconto solo su tre personaggi, lo Zio Bill, il lupo che vede come “naturale” la fine della popolazione Osage, lo stupido Ernest, che ubbidisce ciecamente agli ordini omicidi dello Zio, e la nativa Mollie, malata di diabete, curata dal marito con l’insulina, ma anche avvelenata piano piano da lui, che non riesce a distinguere il bene dal male. Non potendo giocare su un personaggio positivo, l’investigatore, Scorsese rende particolarmente complessi e, diciamo, bipolari i suoi tre personaggi protagonisti.
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Al punto che possiamo incazzarci per la stupidità di Ernest, ma al tempo stesso non vediamo nella moglie, che vede morire le sorelle e il suo popolo, una vera reazione contro il marito, fidandosi lealmente di un uomo che la sta avvelenando. E lei è in qualche modo cosciente di questo. Come accade regolarmente ai personaggi che più amiamo dei film di Scorsese, anche questi si muovono dentro delle regole, che vengono regolarmente infrante da alcuni ma che dominano i nostri comportamenti, e degli affetti di famiglia che possono venir traditi, ma che anche il più turpe degli individui alla fine riconosce.
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Se il perno del triangolo è nello sguardo meraviglioso di Lily Gladstone che vuole capire fino in fondo la natura del marito, che ama fisicamente, come la Catherine Sloper (o Olivia De Havilland) di "Washington Square” di Henry James (o “L’ereditiera” di William Wyler), la stupidità di Ernest lo rende facile preda degli ordini dello zio, che non discute perché non riesce a vederne le conseguenze. Ma attorno a questo triangolo, che per due ore, prima dell’arrivo degli uomini dell’F.B.I., diventa anche un po’ ossessivo, perché non sappiamo a chi o a che cosa attaccarci, sono tutti cattivi o stupidi o impotenti, Scorsese scava fino alle radici dei peccati coloniali del paese, del suo feroce razzismo (“è più facile che ti processino per aver ucciso un cane che per avere ucciso un indiano”) e della violenza che ancora lo domina.
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Non a caso viene citato il massacro di Tulsa, quando nel 1921 i razzisti bianchi distrussero la “Little Africa” che la comunità nera più ricca della città aveva costruito e uccisero qualcosa come trecento afro-americani. E ci parla dell’insabbiamento che la cultura bianca, tutta, suprematista e no, fa “naturalmente” dei propri orrori, dimenticati dopo un secolo esatto da quando sono accaduti, anche se i fatti di Osage County, a dire il vero, vennero prontamente messi in scena al cinema sia nel 1926 “Tragedies of the Osage Hills” di James Young Dear, sia nel 1959 nel film che Mervyn LeRoy e la Warner Bros dedicarono a Hoover e all’F.B.I., “Sono un agente F.B.I.”.
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Ma il nucleo dei tre personaggi, con tutta la spirale di omicidi e contatti criminali che lo zio Bill e il suo esecutore stupido provocano, sono anche la prova di forza della macchina narrativa di Scorsese e dei suoi collaboratori. Perché l’assenza dell’investigatore Tom White obbliga a una narrazione diversa dal solito. E infatti la Paramount, vedendosi spostare il film da poliziesco popolare a drammatico-psicologico, con lo stesso budget miliardario, ha fatto entrare nel pacchetto produttivo un paracadute come la Apple Original Films.
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Certo, l’entrata in scena dell’F.B.I. e poi del processo con gli avvocati Brendan Fraser e John Lithgow illumina la seconda parte del film. Ma il meccanismo del triangolo con Ernest diviso tra lo zio e la moglie rimane ben fermo, perché è intorno a quello che tutto il film ruota. Inutile che vi dica della ricchezza di scenografia, del lavoro di Rodrigo Prieto sulla fotografia e di Robbie Robertson sulla musica, che è quasi un film a parte, una storia della musica americana vista dal basso, dal blues e dal folk, con molte incursioni di musica nativa. Potente. Ma è potente tutto il film. In sala dal 19 ottobre.
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