Marco Giusti per Dagospia
Pinocchio di Matteo Garrone
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“M’è nato un figliolo”. Devo dire che, da vecchio lettore del Pinocchio di Carlo Collodi, da fan delle illustrazioni classiche di Mazzanti, Chiostri e Mussino, della versione muta della Cines con Polidor, il primo Pinocchio dello schermo che uscì il 23 dicembre del 1911 per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, e soprattutto del meraviglioso Pinocchio di Walt Disney, mi sono subito commosso quando ho visto quanto rispetto e amore per i tanti Pinocchi della storia hanno messo Matteo Garrone, il suo Geppetto Roberto Benigni, la sua volpe co-sceneggiatrice Massimo Ceccherini, il suo Mangiafuoco Gigi Proietti e tutti i collaboratori e attori in questo muovo Pinocchio del Natale 2019.
Da Teco Celio incredibile giudice scimmia alla lumachina di Maria Pia Timo, dal Mastro Ciliegia di Paolo Graziosi al maestro di scuola di Enzo Vetrano, dal Grillo di Davide Marotta all’Omino di Burro sulfureo e pedofilo di Nino Scardina, dall’oste di Gigio Morra al Corvo e alla Civetta dei fratelli Gallo. Garrone inserisce questi attori meravigliosi, in gran parte napoletani e toscani, dentro ambienti e villaggi che ci riportano intatta la povertà, la fame, la terra del nostro Ottocento.
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Sembra di percepirla davvero la fame nella scena all’osteria con un Benigni-Geppetto-Charlot in cerca di un piatto di minestra o con la ricerca di un pezzo di cacio che apre tutto il film. Come sentiamo la crudeltà di un mondo adulto e davvero lontano, ormai quasi due secoli, visto attraverso gli occhi di un bambino. Anche se, forse, la crudeltà di oggi, potrà essere diversa nei modi, ma si muove con la stessa violenza. E la scena dell’Omino di Burro che trasforma i bambini in ciuchini può essere letta davvero in maniera moderna quasi da adescamento pedofilo.
Ora. Il Pinocchio più lontano, quella del Conte Antamoro per la Cines nel 1911, puntava tutto sulla strepitosa performance acrobatica-burattinesca del suo protagonista, Ferdinand Guillaume detto Tontolini e poi Polidor, e sulla derivazione dal nuovo Pinocchio illustrato ufficiale e sabaudo disegnato da Attlio Mussino, lo iniziò nel 1908, che avrebbe dovuto essere, e lo fu, il grande libro dell’infanzia dell’Unità d’Italia.
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Il Pinocchio più celebre, quello di Walt Disney, pensato per il mercato europeo, soprattutto italiano e tedesco e massacrato dallo scoppio della guerra, come ricordava in un celebre saggio Maurice Sendak, il più grande illustratore americano per l’infanzia, era nulla di più che l’ultimo grande sogno di Mickey Mouse, l’eroe puro e positivo che affronta il mondo con gli occhi spalancati. Un sogno che di lì a poco, con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, non sarebbe mai più stato lo stesso, ma che questo Pinocchio-Mickey bambino, meno rigido dei Pinocchi illustrati italiani, conserva per le future generazioni.
Il bambino robot, infine, di Intelligenza Artificiale di Steven Spielberg che riprese il progetto pinocchiesco di Stanely Kubrick, ha ancora questa energia positiva e meravigliosa ma ha una tristezza tutta nuova e moderna nata dal rapporto uomo-macchina, che era poi alla base delle letture esoteriche del romanzo di Collodi. Non so che tipo di lettura volesse darci Matteo Garrone col suo nuovo Pinocchio.
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E’ sicuramente più artistica, illustrativa di quella realistica del Pinocchio di Luigi Comencini, che aveva la possibilità di sfruttare i talenti più illustri della commedia del tempo, da Nino Manfredi a Franco e Ciccio. E non ne fa un piccolo eroe americano alla ricerca dell’avventura, anche se il burattino si muove in continuazione facendo scelte casuali e sempre sbagliate che gli permettono di osservare il mondo.
Ma Garrone non gioca sulla fisicità e la freschezza del bambino come Comencini, tanto che lo imprigiona nella gabbia del burattino di legno in digitale, lasciandogli davvero mobili solo gli occhi, ma insiste come nessuno ha mai fatto sulle materie che costruiscono le sue immagini, sul legno stesso di cui è fatto Pinocchio, un legno che invecchia e va lucidato, sulla terra, sui campi dove si muove Geppetto e il suo figliolo, sull’acqua, dove finisce il ciuchino-Pinocchio invece di morire, sulla bellezza dei ruderi di questi poderi e case dei contadini dove ricostruisce il suo Ottocento.
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Non riesce, come Mazzanti e Chiostri, a fare di Pinocchio una figurina di legno sottile, lunga e puntuta, un po’ come gli alieni di Incontri ravvicinati. Puntando sul legno ne fa un Pinocchio arrotondato, un po’ sgraziato. Ma nemmeno Comencini riuscì a digerire l’idea di fare un film col Pinocchio di legno che gli aveva costruito Rambaldi e ce lo rese da subito bambino, e lì trovò trovo l’idea vincente, anche grazie a un bambino, Andrea Balestri, che aveva una vivacità straordinaria.
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Garrone si trova un po’ in difficoltà col suo Pinocchio quando è solo in scena, ma funziona benissimo quando recita con Benigni e con Papaleo e Ceccherini o con Gigi Proietti. E’ come se Pinocchio fosse nulla di più del nostro sguardo, bambino, sul mondo crudele degli adulti. Tutto il lato dark, ma anche comico del film, viene da questo spostamento di sguardo. Noi, come Pinocchio, facciamo scelte casuali e siamo osservatori del mondo. Questo funziona benissimo anche in certe scene meno famose e più libere, penso a quelle della scuola col maestro antipatico o al rapporto di gioco con la fatina-bambina e la lumaca.
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Certo, se Pinocchio è solo non ha la vivacità del Pinocchio umano di Andrea Balestri, e la tensione cala. Mentre cresce quando entrano in campo Benigni, che riesce a portarsi dietro tutta la sua umanità e antica toscanità e un Ceccherini meraviglioso, omaggiato con primi piani che ne mettono in luce l’aspetto animale e crudele, e diventa una volpe cattiva e pericolosa molto meno da vaudeville di quella disneyana, anche se il rapporto che ha col gatto-Papaleo è piuttosto simile.
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Insomma. E’ un film molto più complesso e difficile di quello che può apparire che ha il grande pregio di non nascondersi di fronte alle difficoltà, ma di farcele vedere con estremo candore, al punto da alternare episodi più riusciti a altri meno riusciti, e rendere così il film non compatto e perfetto come Dogman, ma con punte di messa in scena e di recitazione assolutamente strepitose che non possono lasciarci indifferenti. E davvero non capisco le accuse che ho sentito alla visione dei critici di freddezza, di inutilità, di malfunzionamento.
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Erano anni e anni, ad esempio, che aspettavo di vedere il Benigni della nostra giovinezza ritornare a fare Benigni, anche se da vecchio, e muoversi per un paese della Toscana che potrebbe essere la sua Vergaio, alla ricerca di un piatto di minestra o di un pezzo di legno per fare il burattino o di un abbecedario da comprare dando in cambio una giacca. Garrone riesce a liberare Benigni dagli stati di coppale con cui ha lucidato qualche anno fa il suo, ahimé, non riuscitissimo Pinocchio, ma anche in questi ultimi anni il suo personaggio pubblico.
Avercelo reso vecchio e paterno, “Dì… babbo!”, mi ha commosso. Come mi ha commosso la crudeltà, tutta ottocentesca e toscana, con cui vengono abbandonati a loro stessi il Gatto e la Volpe, ormai privo anche una gamba.
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E allora, è vero che spesso questo bambino ricostruito non è perfetto, come non sono sempre uguali i capelli bianchi e scomposti di Benigni e non è il massimo la musica di Dario Marianelli, tanto valeva richiamare Alexandre Desplat visto che non esiste più un Nino Rota, ma devo ringraziare Matteo Garrone e il suo valido cosceneggiatore volpe Massimo Ceccherini di aver affrontato a fronte alta un corpo a corpo micidiale con Pinocchio e tutti i suoi fantasmi dove non è quasi possibile vincere.
Ben lo sapeva Fellini che aveva illuso Benigni di farglielo fare, e aveva poi solo seminato i suoi film di elementi pinocchieschi. Garrone ha affrontato Pinocchio senza paura e per questo, per averci fatto vedere Benigni come da tanti anni non lo vedevamo più, per avere dato nuova vita a Massimo Ceccherini, che è uno dei maggiori talenti del nostro spettacolo, e lo sanno bene gli spettatori che hanno amato il Pinocchio teatrale che faceva con Alessandro Paci e Carlo Monni in giro per la Toscana, per averci fatto rivedere la fame e la povertà di un’Italia dimenticata, merita tutto il nostro affetto. In sala dal 19 dicembre
pinocchio ambientato da disney in un borgo del nord europa pinocchio balilla