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Francesca Basso e Milena Gabanelli per il "Corriere della Sera"
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«Dobbiamo superare il principio dell’unanimità, da cui origina una logica fatta di veti incrociati, e muoverci verso decisioni prese a maggioranza qualificata. Un’Europa capace di decidere in modo tempestivo, è più credibile di fronte ai suoi cittadini e di fronte al mondo».
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Le parole del premier Mario Draghi pronunciate il 3 maggio scorso durante la plenaria del Parlamento europeo espongono in modo chiaro quale sia il problema dell’Unione europea nel prendere decisioni.
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L’Europa non è uno stato federale, la moneta unica è adottata solo da 19 Paesi su 27, non c’è una Costituzione europea perché nel 2005 i cittadini francesi e olandesi hanno votato contro in un referendum.
L’Unione europea è una comunità di diritto fondata sui Trattati negoziati dagli Stati membri, che hanno ceduto competenza verso Bruxelles ma non in egual misura in tutti i settori.
Sulle questioni considerate politicamente più sensibili bisogna che tutti gli Stati siano d’accordo. In pratica i Paesi sono disposti a cedere competenze a condizione di avere la garanzia di poter impedire l’adozione di decisioni a loro sgradite. L’unanimità però rallenta il processo decisionale dell’Unione, ed è talvolta usata da uno Stato membro per «ricattare» gli altri.
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L’unanimità come ricatto
Il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue contro Mosca per l’invasione dell’Ucraina è stato bloccato per settimane dall’Ungheria, che ha esercitato il suo diritto di veto finché non ha ottenuto un’esenzione dall’embargo sul petrolio russo perché non ha sbocco al mare e le è difficile diversificare le forniture.
Ma poi ha rimesso il veto perché il patriarca di Mosca Kirill fosse escluso dalle sanzioni. La direttiva Ue che punta a garantire un livello minimo globale di tassazione al 15% per le multinazionali (global minimum tax) è stata bloccata dal veto della Polonia, che poi ha tolto, ma ora lo ha messo l’Ungheria.
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Anche se non dichiarato ufficialmente, Varsavia aveva stoppato la direttiva per ottenere in cambio dalla Commissione Ue il semaforo verde sul proprio Recovery Fund. L’Ungheria ha messo a sua volta il veto per esercitare la stessa pressione. L’Ue ha introdotto un meccanismo per legare i fondi Ue al rispetto dello Stato di diritto e Ungheria e Polonia hanno messo il veto al bilancio Ue 2021-2027 finché hanno ottenuto che non fosse applicato subito.
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Nel 2020 Cipro ha ritardato per settimane le sanzioni dell’Ue contro la Bielorussia preoccupata per le provocazioni della Turchia, che svolgeva attività di ricerca di idrocarburi nelle acque di Nicosia senza autorizzazione.
Quando si decide all’unanimità
Dentro al Consiglio serve l’unanimità quando si prendono decisioni in questi ambiti: politica estera e di sicurezza comune (sanzioni, dichiarazioni politiche, missioni militari); imposizione fiscale (nuove tasse a livello Ue, come ad esempio la minimum tax per le multinazionali); sicurezza sociale o protezione sociale (diritti da riconoscere a livello Ue a tutti i cittadini europei); adesione di nuovi Stati all’Unione europea (per lo status di candidato all’Ucraina hanno dovuto approvare tutti e 27); cooperazione di polizia operativa tra gli Stati membri.
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Negli altri casi il Consiglio decide a maggioranza qualificata, chiamata anche «doppia maggioranza»: devono essere favorevoli 15 Paesi su 27, e rappresentare almeno il 65% della popolazione totale dell’Ue. Un’astensione è considerata un voto contrario. La minoranza di blocco deve invece includere almeno quattro Paesi, che rappresentino oltre il 35% della popolazione dell’Ue.
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Cosa dicono i Trattati
Nei Trattati attuali è già prevista la possibilità di procedere a maggioranza qualificata anche nei settori in cui si deve decidere all’unanimità ma per farlo è necessario che siano d’accordo tutti i 27 Stati membri: sono le «clausole passerella».
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Cioè serve l’unanimità per non applicare l’unanimità. Mentre il cambiamento dei Trattati è regolato dall’articolo 48 del Trattato di Lisbona, che prevede una procedura ordinaria e due semplificate. In tutti e tre i casi il Consiglio europeo alla fine delibera all’unanimità.
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Ebbene, dopo un anno di confronti tra cittadini, istituzioni, società civile e associazioni attraverso la Conferenza sul Futuro dell’Europa, i cittadini chiedono alle istituzioni europee che il principio dell’unanimità venga applicato solo per l’ingresso di un nuovo Stato nella Ue e la modifica dei principi fondanti. Il resto a maggioranza qualificata.
La decisione del Parlamento
Il 9 giugno il Parlamento Ue ha votato una risoluzione che chiede ai leader Ue di avviare il processo di modifica dei Trattati. Nel dettaglio le richieste sono queste:
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1) passare dal voto all’unanimità a quello a maggioranza qualificata in ambiti come le sanzioni, le cosiddette clausole passerella (consentono di modificare i Trattati) e le emergenze;
2) modificare le competenze che l’Ue ha nei settori della salute, energia, difesa, politiche sociali ed economiche;
3) riconoscere al Parlamento Ue l’iniziativa legislativa e i pieni diritti di colegislatore sul bilancio Ue;
4) rafforzare la procedura di tutela dei valori fondanti dell’Unione e chiarire la definizione e le conseguenze delle violazioni.
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Ora la palla passa al Consiglio europeo e sono i capi di Stato e di governo a decidere se istituire una Convenzione intergovernativa per la revisione dei Trattati. La decisione viene presa a maggioranza semplice, vuol dire 15 Stati membri su 27 (ma i risultati della Convenzione dovranno essere approvati all’unanimità).
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E questo è il primo problema perché il 9 maggio scorso, poco dopo la chiusura dei lavori della Conferenza sul Futuro dell’Europa, 13 Paesi Ue — Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Romania, Slovenia e Svezia — hanno presentato un documento informale in cui scrivono che avviare un processo di modifica dei Trattati sarebbe «sconsiderato e prematuro», e rischierebbe «di togliere energia «alle sfide geopolitiche urgenti che l’Europa deve affrontare».
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Sei Paesi — Italia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Spagna — hanno a loro volta presentato un documento alla Commissione con il quale chiedono di dividere le proposte «attuabili rapidamente nello schema dei trattati esistente» e «le riforme istituzionali di lungo periodo» e si dichiarano «in linea di principio aperti alla necessità di apporre cambiamenti ai Trattati definiti insieme».
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Il Consiglio non si sbilancia
Il Consiglio europeo nella riunione di giovedì e venerdì scorsi nelle conclusioni «prende atto delle proposte» e sottolinea che «un seguito efficace» deve essere assicurato dalle istituzioni, «ciascuna nell’ambito delle proprie competenze e conformemente ai Trattati». Niente di più.
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La palla quindi rimbalza sulla prossima presidenza del Consiglio Ue: a luglio passerà alla Repubblica Ceca e poi alla Svezia che non hanno fatto mistero di non voler toccare i Trattati. Difficile aspettarsi progressi su questo fronte.
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Ma ci sono altre soluzioni, a partire dalla cooperazione rafforzata che è già prevista dai Trattati (è stata usata ad esempio per creare la Procura europea): permette a un minimo di nove Stati membri di cooperare in un ambito specifico se risulta evidente che l’Unione dei 27 non è in grado di conseguire gli obiettivi che si è data in un termine ragionevole.
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La pandemia e ora la guerra in Ucraina stanno dimostrando che le risposte ai grandi problemi non arrivano dai singoli Stati bensì dall’Ue nel suo insieme. Quando è esploso il Covid, l’acquisto congiunto dei vaccini si è dimostrata una strategia vincente. Il maxi piano di aiuti Next Generation Eu, finanziato per la prima volta con debito comune, rappresenta una svolta nella storia dell’Unione.
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E allora sono i Paesi pronti ad avanzare che devono trovare il coraggio di farlo, lasciando a chi rema contro (e considera l’Ue solo uno strumento per incassare fondi), la responsabilità di restare indietro.
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