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Michel Guerrin per “Vogue”
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La sua storia. Di ebreo berlinese costretto nel 1938, a 18 anni, a fuggire dal nazismo, lasciandosi alle spalle alcuni fantasmi e conservando a vita un disgusto per tutto quello che è corretto. «Il termine corretto evoca per me la psicopolizia e i regimi fascisti», ripeteva sempre.
E ancora: «Il buon gusto è la normalizzazione dello sguardo». Negli Stati Uniti nessun museo ha esposto Newton mentre era ancora in vita e nemmeno dopo la sua morte, nel 2004. E ora che, sotto l’impulso del movimento #MeToo, il dibattito sul femminismo si è radicalizzato, qualunque museo, ovunque sia, deve avere molto coraggio per assumersi il rischio di dedicargli spazio. Poco importa che non sia stato oggetto di denunce quando era vivo. Poco importa che abbia lavorato con Kate Moss, Karen Mulder, Monica Bellucci, Cindy Crawford, Claudia Schiffer, Naomi Campbell o Iman.
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Poco importa il sentimento generale, come ricorda Violeta Sanchez, la sua musa: «Ogni modella sognava di posare per Helmut. E io ho avuto il privilegio di lavorare con lui vent’anni». Poco importa, perché quando era vivo, non era l’uomo a essere sotto tiro, ma la sua opera. Il che di per sé è pertinente. Ma la motivazione no: egli ridurrebbe la donna a un oggetto sessuale, anche di fantasticherie, tra cui quella dell’avvilimento, del degrado.
simonetta gianfelici and arielle burgelin
Il discorso invece è decisamente più complesso, ma l’epoca non concede sfumature. Tentiamo un’altra lettura. Con Newton la donna raramente è una vittima. Anche se nuda, è lei che decide, non perde mai la propria dignità. Sta dritta, sorride raramente, quasi mai. Percepiamo anche che porta avanti una storia. Non è più una modella. O meglio: Newton fa indossare alle donne che fotografa gli stereotipi degli uomini, restituendogli lo specchio del loro machismo.
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In questo è un rivoluzionario. Chiediamoci quindi: come mai per decenni le femministe sono rimaste mute di fronte alla valanga di modelle intente a far moine sulle riviste patinate e hanno invece vilipeso Newton che, a più riprese, non sempre, ha trasformato la donna in una fortezza autonoma e responsabile? Risposta: perché lui non ha provato a calmare le acque, anzi, giocando con la provocazione, in varie interviste si è divertito ad apparire come una piccola peste.
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A differenza di molti suoi colleghi non ha mai cavalcato il luogo comune “voglio magnificare le donne”. Newton aveva uno spiccato gusto per gli ambienti sadomaso – il suo modello era Catherine Deneuve in Bella di giorno di Luis Buñuel. Nel 1979 disse a Nicole Wisniak, sulle pagine della rivista francese Egoïste: «C’è una categoria di donne che mi irrita profondamente, è la razza delle donne dette “liberate”, le pseudo-militanti del Women’s lib».
Tutto questo ne fa un bersaglio ideale. Eppure Newton segue un protocollo artistico molto coerente nel disegnare la donna contemporanea. In primo luogo sceglie essenzialmente dei soggetti con spalle larghe e gambe che non finiscono mai. «Grandi belve», le definisce l’amico e saggista José Alvarez. «Donne carrarmato», chiosa Violeta Sanchez.
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La modella, poi cantante, Arielle Burgelin ne è la quintessenza, maîtresse con frangetta color inchiostro alla Louise Brooks. In uno scatto dell’82 per Amica, di nero vestita, dà le spalle al lettore e sfida gli uomini schierati sulla spiaggia in costume da bagno. Che hanno tutto l’interesse a comportarsi bene. Ma senza dubbio è la fotografia più famosa di Newton a racchiudere in sé la sua lotta per l’uguaglianza dei sessi. Si tratta di quella con la modella androgina in tailleur Yves Saint Laurent ritratta in rue Aubriot – nonché della variante in cui lei è affiancata da una donna nuda, con addosso solo una veletta e tacchi alti. Una vera riflessione sul genere.
arielle burgelin
La donna di Newton non è astratta. Di certo è sexy, ma soprattutto vive, nel quotidiano, la realtà. Interpreta la sua epoca. Per questo il fotografo tralascia spesso lo studio, preferendo luoghi familiari: sceglie una strada, una camera d’albergo, un garage, una piscina, un salone, una cucina, un’auto. E quando gli viene fatto notare, risponde: «Una donna non vive su un fondale di carta bianca. Si occupa della casa, del suo lavoro, della macchina, dei bambini, degli amanti».
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Per far sì che le sue donne rimangano il più possibile vere, Newton agisce velocemente, alla maniera dei paparazzi. Tiene la macchina fotografica in mano, non usa il cavalletto, consuma poche pellicole, si circonda di una équipe agile e dimentica le luci artificiali. E arriviamo all’elemento sostanziale. Fin dall’inizio degli anni 60, quando sbarca a Parigi, Newton vuole mettere in scena delle storie in un solo scatto oppure con più pagine.
«Il soggetto, ecco il nocciolo della questione», dice. Il soggetto non è il vestito ma la narrazione che scaturisce da uno o più corpi, in un preciso ambiente. Quasi a dire che il suo lavoro non ha niente a che vedere con la moda, ma piuttosto con i giornali di attualità. Per raccontare una storia, quello che si mostra deve essere leggibile. E infatti Newton ripeteva sempre: «L’unica cosa che si può dire delle mie foto è che non sono mai sfocate».
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Quasi invariabilmente, gli scenari che abbozza mettono in gioco una donna della buona borghesia, indipendente e sexy. E tutto è già nel suo primo libro, White Women / Femmes secrètes del 1976, il più narrativo, il più cinematografico addirittura: la storia di una donna, tra potere e sottomissione, su uno sfondo grandioso, con luce naturale. Nel 1980 Newton lavora su alcune serie di nudi che si riveleranno decisive, marcando il momento di una rottura estetica, di uno scatto della sua carriera. Il nudo è radicato in lui, spesso, dopo un servizio di moda (collabora con Vogue Paris dal 1961 al 1984) gli capita di chiedere alla modella se vuole spogliarsi per altre fotografie.
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Ma qui si tratta di un’altra cosa, dei suoi Big Nudes: ventuno ritratti frontali di donne in tacchi a spillo, grandi formati in bianco e nero – uno peraltro appeso nel suo gabinetto a Monaco. La serie è su fondo bianco, ma rimanda ancora all’attualità: le foto segnaletiche dei terroristi della Baader-Meinhof. Non a caso, per molto tempo, ha chiamato questa serie The Terrorists. Lo stesso anno, il 1980, Newton dà il via alla serie The Naked and the Dressed.
Famoso è il dittico Sie Kommen (1981): nella prima immagine quattro donne ci vengono incontro, nude; nella seconda la posizione è la stessa, ma sono tutte elegantemente vestite. Ma perché Sie Kommen? «Stanno arrivando!», è quello che dicevano i soldati tedeschi nei bunker in Normandia vedendo comparire all’orizzonte la flotta nemica». Mentre lavorava poteva usare parole dure, perché riteneva che la modella fosse pagata per fare quello che voleva lui. June ci ha confidato che per Helmut, «la donna era un oggetto necessario, come una macchina fotografica o un vaso di fiori».
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Chiedeva posizioni impossibili ai suoi soggetti, poteva arrivare a dare della “vacca” a quelle che non capivano le sue messe in scena letterarie. Un episodio a proposito ha fatto il giro del mondo della moda: Newton fotografa Loulou de la Falaise in un giardino con un freddo polare. Lei non resiste più: «Sono cianotica». «Poco importa, il servizio è in bianco e nero», risponde lui.
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Ma tra l’uomo e il lavoro non c’era confusione. Nella vita Newton esibiva una cortesia innata. Al lavoro, come conferma June, manteneva le distanze: «Helmut ripeteva volentieri che un fotografo può fare l’amore con una ragazza o... fotografarla. Ma non le due cose nello stesso tempo». Quel che il pubblico può fare nello stesso tempo è ammirare o detestare le sue immagini in funzione della propria storia e cultura. In questo senso Helmut Newton è decisamente nel cuore dell’attualità.
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