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Carlo Nordio per “il Messaggero”
Il 2 luglio del 1961 Ernest Hemingway, il massimo scrittore americano del secolo scorso, si chiuse in camera nella sua casa di Ketchum, nell Idaho, e si sparò con la sua carabina preferita. Oppresso dalle malattie e avvilito dal deterioramento psichico, decise di porvi fine non con un semplice pugnale, come sospirava Amleto, ma, da vecchio cacciatore, con un'arma da fuoco. Era nato il 21 luglio 1899 a Oak Park, Illinois, in una famiglia di tranquilla borghesia provinciale. Ma il giovane era di carattere irrequieto e di curiosità insaziabile, e. quando, nel 1917, gli Stati Uniti entrarono in guerra con la Germania, si arruolò volontario.
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IL TRASFERIMENTO
Arrivò in Veneto con il compito, non eroico ma comunque pericoloso, di guidare le autoambulanze, fu ferito, ottenne un encomio e fu curato da una gradevole infermiera. Da entrambe le esperienze, amore e guerra, trasse il romanzo Addio alle armi. Nel 1921 si sposò con Hadley Richardson, e si trasferì a Parigi. Furono probabilmente i suoi anni migliori, descritti in una pubblicazione postuma intitolata Festa Mobile. Protagonista è proprio l'effervescente capitale: non quella dei quartieri alti di Balzac o dei bassifondi di Zola, e nemmeno quella di Montmartre che vent' anni prima aveva accolto e affascinato Utrillo, Toulouse Lautrec e il giovane Picasso.
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Era la Parigi della rue Muffetard e di Place de la Contrescarpe, dei gioiosi mercatini e delle mansarde complici, dove il ventiduenne sposino si dedicava all'innamorata e alle corrispondenze con qualche giornale, che permettevano ai due di sopravvivere, squattrinati ma felici. Spesso, munito di carta e matita, scriveva seduto al caffè, come anni dopo avrebbe fatto, con maggior sussiego e corteo di sicofanti, nel raffinatissimo Flore, il corrucciato Jean Paul Sartre. Era anche la Parigi della lost generation, quella generazione perduta e sopraffatta dagli orrori della guerra e dalle delusioni della pace.
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Una folta schiera di giovani americani aveva costituito una colonia che ruotava attorno a Gertrude Stein e a Sylvia Beach, la titolare della libreria Shakespeare and Company che esiste ancora, quantunque privata della sua patina gloriosa. Il loro quartier generale, era al carrefour Vavin, dividendosi tra i quattro caffè che ne limitavano gli angoli: il Select, la Coupole, il Dome e la Rotonde. Lì vicino Modigliani era morto da poco, logorato dalla tisi, e la sua donna, non reggendo al dolore, si era suicidata.
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IL FERVORE
Non si respirava il fervore ideologico che il dopoguerra successivo avrebbe infiammato Saint Germain des Prés, ma piuttosto lo scetticismo corrosivo, la trasgressione ribelle e il vizio estetizzante. Si potevano incrociare la spregiudicata Kiki, che pagava il pranzo esibendo le parti intime, il suo mentore Man Ray, espressionisti stravaganti come Chaim Soutine e reduci menomati come Blaise Cendrars.
La comunità anglosassone era la più viva e vitale, dominata da personalità come Joyce e Ezra Pound: Hemingway ne assorbì il vigore innovativo che si tradusse nel suo inconfondibile stile letterario secco, essenziale e apparentemente inaccurato. Nel suo primo libro Fiesta descrive efficacemente quella irripetibile atmosfera parigina.
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L'AVVENTURA
Tuttavia la sua irrequietezza, e la sete di avventura prevalsero sulla programmazione disciplinata che contrassegna quasi tutti i geni della letteratura. Hemingway alternò i safari africani con la pesca d'altura nei Caraibi, matrimoni e divorzi con relazioni effimere, rapide successioni di capolavori con intervalli di sterile apatia. Nel 37, scoppiata la guerra civile spagnola, vi cercò un ennesimo rimedio contro il logorìo della depressione. Si schierò, ovviamente tra gli antifranchisti, e ne descrisse più o meno obiettivamente le operazioni. Ma poco dopo tornò nella sua Cuba, con i suoi divertimenti, il suo oceano e i suoi liquori.
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Nel giugno del 44 assistette allo sbarco in Normandia: vide da lontano la carneficina di Omaha beach e la descrisse come se fosse stato in prima linea. In agosto gli Alleati liberarono Parigi, e Hemingway vi arrivò con altri giornalisti su tre scoppiettanti automobili, giusto per fiondarsi al Ritz dove l'allegra brigata requisì due suites e, racconta Dan Frank, svuotò il bar.
Successivamente il dinamico scrittore si vantò di aver contribuito alla liberazione della capitale, tra le sghignazzate dei testimoni delle sue sbronze. In seguito descrisse efficacemente l'avanzata nella foresta di Hurtgen e la battaglia delle Ardenne. Per questi suoi vividi affreschi gli fu conferita la medaglia di bronzo. A differenza del conflitto precedente, Hemingway finì la guerra incolume in tutto tranne che nella cirrosi e nel diabete.
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L'ORGANISMO
Fu di nuovo assalito dalla depressione, alimentata anche dalla morte degli amici; in pochi anni se n'erano andati Ford, Fitzgerald, Anderson, Joyce e infine Gertrude Stein. Questa marche funèbre accelerò la sua dipendenza dall'alcol, e minò il suo già precario organismo. Viaggiò in Italia, e a Venezia si invaghì di una diciannovenne contessa che rievocò nel romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi. La blanda accoglienza della critica stimolò le ultime energie del vecchio leone malato, che reagì scrivendo, in otto settimane, il suo capolavoro, Il vecchio e il mare.
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Vi si narra l'ossessione di un anziano pescatore per catturare un grosso Merlin. Quando finalmente lo prende, e quasi gli si affeziona, i pescecani se lo mangiano durante il tragitto di ritorno. Per questo inno alla sconfitta umana Heminghway vinse vari premi. Nel 1954 ottenne il Nobel per la letteratura che pare abbia commentato con un «troppo tardi!», e che fu ritirato in sua vece dall'ambasciatore a Stoccolma.
Si rifugiò nei suoi consueti analgesici, l'avventura estrema , e l'abuso di alcolici. La prima gli procurò vari incidenti. Il secondo lo portò al disfacimento fisico e cerebrale. Soffrì di tutte le ansie della persona depressa: patofobie, vuoti di memoria, mania di persecuzione.
Era convinto di essere pedinato dall'FBI, di essere arrestato dallo sceriffo locale e di essere povero in canna. Fu ricoverato in varie cliniche e curato con l'elettroshok, che ovviamente peggiorò la situazione. Ma era ancora abbastanza lucido per comprendere la sua mancanza d lucidità. Così, a soli sessantadue anni, decise di farla finita.
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Seguì il consiglio di Seneca, che la Legge Eterna ci ha dato una sola via di entrata alla vita, ma molte vie di uscita, e che e lecito e talvolta doveroso scegliere quella che preferiamo quando questa diventa un'insopportabile prigione. Scelse il metodo più cruento, l'impiego dell'arma con cui aveva ucciso elefanti e leoni, forse per identificarsi con le sue vittime, forse per espiare le colpe di tante stragi, o forse semplicemente perché lo ritenne il sistema
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