Simone Sabattini per www.corriere.it
DONALD MCNEIL
Lo avevamo lasciato due settimane fa alle prese con il licenziamento di una giornalista troppo contenta per l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca. Ritroviamo il New York Times con i postumi di una nuova, doppia, e più dolorosa grana. Nel corso del weekend «hanno lasciato il giornale» Donald G. McNeil Jr., il reporter forse più importante del 2020 per il quotidiano, e Andy Mills, produttore del popolarissimo podcast The Daily. In sostanza, il primo è accusato di razzismo, il secondo di molestie.
anthony fauci
Il caso di McNeil è quello più traumatico, perché il 66 cronista-star di Scienza e Salute è diventato nel corso del 2020 l’architrave dell’informazione sulla pandemia da Covid-19 del quotidiano. Arrivato al giornale nel 1976, pluripremiato, è un veterano delle epidemie (Aids, Ebola, Zika) ed è il giornalista americano — forse mondiale — che prima e meglio di tutti ha saputo prevedere quello che stava accadendo all’inizio dell’anno scorso: paragonò i rischi del coronavirus a quelli dell’influenza Spagnola del 1918 e avvertì che ognuno si sarebbe potuto trovare con vittime nelle propria cerchia di conoscenze; e lo fece il 27 febbraio quando anche in Italia (figurarsi nell’America di Trump) tanti parlavano ancora di «una brutta influenza» e i lockdown nazionali sembravano distopie hollywoodiane.
DONALD MCNEIL
Quell’analisi della situazione andò in onda in un episodio del Daily che — per inciso – è il più ascoltato della storia del podcast, che ha in generale enorme successo. A giugno — con le curve delle infezioni in calo e le feste in spiaggia alle porte — citò studi che spiegavano come tutte le principali epidemie del 900 fossero tornate con ondate più potenti in autunno.
I suoi articoli sul giornale (rari e straordinariamente documentati) sono stati fari nella notte per mezzo mondo. Fino all’ultimo colpo: la conversazione con Anthony Fauci in cui l’immunologo più famoso d’America racconta di essersi sentito, con The Donald alla Casa Bianca, «come una puzzola in un picnic».
dean baquet
Ma che ha fatto McNeil? In un viaggio organizzato dal giornale in Perù nel 2019 con alcuni studenti/lettori avrebbe «proferito ripetuti commenti razzisti». Così la riporta The Daily Beast che ha per primo disseppellito la vicenda. Nell’indagine condotta dentro il Times, però, salta fuori che l’unica cosa certa è che McNeil aveva pronunciato la parola «nigger», negro, mentre chiedeva agli studenti se fosse stata usata in un video di cui si stava discutendo.
DONALD MCNEIL
In sostanza McNeil stava riportando la parola, stava citando. Solo che quel termine, in America, non è solo offensivo ma bandito, indicibile, tanto che viene spesso riferito come «n-word», la parola con la «n»: ripeterlo è ipso facto un’offesa grave (anche se poi dipende da chi la dice e in che contesto, basta vedere un film di Spike Lee). Il giornale dopo un’inchiesta interna aveva richiamato formalmente, ma perdonato, il giornalista: «Ha detto cose offensive e con scarso giudizio — aveva spiegato il direttore Dean Baquet — ma non mi è sembrato ci fosse un intento di odio o malizia». Poi 150 dipendenti hanno protestato con una lettera e il risultato è stato l’addio di McNeil in un lampo.
dean baquet new york times
Andy Mills era invece un produttore della sezione podcast ed era già finito al centro di enormi polemiche per la produzione della serie Caliphate — sull’Isis — sconfessata dal giornale tra mille scuse perché era sostanzialmente basata sulle testimonianze di un mitomane. Mills è stato cacciato perché alcuni suoi (ambigui o brutti) atteggiamenti verso colleghe donne sono riemersi dal passato. Poco importa che Mills fosse stato ingaggiato dal Times anni dopo quei fatti — e che lui li avesse resi noti al giornale al momento dell’assunzione. Il loro riaffiorare su Twitter ha provocato un putiferio tra i colleghi simile a quello per McNeil. «Fired» anche lui.
Andy Mills
Naturalmente tutto questo avviene anche alcuni mesi dopo l’addio — chiacchieratissimo — del capo della Opinioni James Bennet, che aveva autorizzato la pubblicazione di un articolo di un senatore repubblicano che chiedeva l’esercito nelle città per contrastare le proteste di Black Lives Matter. E dopo l’addio della columnist Bari Weiss, indignata dal fatto che «Twitter sia diventato l’ultimo giudice al New York Times».
Adesso, a choc ancora caldo, tanti si chiedono per l’ennesima volta cosa stia succedendo al giornale più famoso del mondo: se la svolta culturale americana imponga necessariamente tanta severità, se sia «cancel culture», cultura dell’eliminazione anche questa, e delle più radicali, visto che spazza via intere carriere sulla base di storie quantomeno nebulose — come quella di McNeil che pure si è scusato in tutti modi.
BARI WEISS
Tanti sui social plaudono al «repulisti». Ma tanti altri no. Molti colleghi di McNeil, dentro e fuori il Times, si dicono esterrefatti. L’associazione per la libertà d’espressione Pen ha condannato per l’ennesima volta l’uso della «n-word» ma ha aggiunto che il licenziamento di McNeil «manda un messaggio raggelante». E Newsweek ha pubblicato un commento che si intitola «The NYTimes succumbed to another mob», dove l’«assalto inferocito» questa volta non è quello dei suprematisti al Congresso, ma quello dei giovani carrieristi nascosti dietro il cannone del politicamente corretto. Difficile immaginare che sia finita qui.