Mario Bellini
Francesco Erbani per la Repubblica
Da sedie, poltrone e soprattutto tavoli, i suoi oggetti preferiti, ai progetti d' architettura e alla pianificazione urbanistica, passando per i reportage fotografici e per il collezionismo. Dagli uffici della Rinascente e dai laboratori Olivetti fino alla direzione di Domus, agli otto "Compassi d' oro" conquistati come designer e quindi ai lavori per il Louvre e il Foro romano.
Si distende così la carriera di Mario Bellini che in quasi sessant' anni ha interpretato a suo modo la celebre espressione di Ernesto Nathan Rogers, che Bellini ebbe professore al Politecnico di Milano: «Dal cucchiaio alla città». Espressione che non lo convince appieno, ma che può funzionare da etichetta per la mostra che alla Triennale racconta quest' avventura professionale e che ha per titolo "Italian Beauty".
MARIO BELLINI
Bellini, classe 1935, ha allestito da sé questa rassegna (la cura è di Deyan Sudjic, Ermanno Ranzani e Marco Sammicheli, fino al 19 marzo) alla quale si accede varcando una parete-libreria nei cui scaffali sono disposti, un po' a caso, tanti dei prodotti usciti dal suo atelier. Prodotti che sfilano lungo un corridoio a U, dal soffitto del quale pendono pannelli evocativi delle suggestioni culturali che ne sono alla base (un lungo tavolo generato da L' ultima cena di Andrea del Castagno, per esempio).
Sul corridoio poi si affacciano sale che ospitano disegni e plastici, ma soprattutto schermi giganteschi che proiettano immagini delle architetture di Bellini.
Mario Bellini 1
Architettura, design: qui c' è tutto Bellini.
«Non mi piace la parola design. Il design è un' invenzione italiana, che da un verbo inglese ha tirato fuori un sostantivo. Piano piano la parola è finita a significare categorie non ben precisate di oggetti».
E al suo posto che parola userebbe?
«Non saprei. Alla fine si è rivelata insostituibile. Ha vinto lei. Piuttosto la mente umana entra in crisi quando si chiede la differenza, poniamo, fra una caffettiera di design e una non di design. Qual è? Forse una via d' uscita sta nel parlare di "stile di design"».
tavolo moderno mario bellini rotondo 9515 3086667
Chiamiamola come ci pare, lei cominciò a disegnare oggetti in un luogo d' eccellenza, l' Olivetti.
«Il lavoro per Olivetti era un lavoro nobile. Ci sono arrivato come consulente nel 1963, fino ad allora ero stato impegnato con la Rinascente. Adriano era morto da tre anni, ma molto di lui sopravviveva. Il primo dei suoi figli, Roberto, ne aveva raccolto l' eredità. In quelle stanze lavoravano Volponi, Giudici, Pampaloni. Gli intellettuali erano stimolati, non tollerati».
Per l' azienda era un passaggio delicato.
«Si passava dall' elettromeccanica all' elettronica. Non c' erano più gli ingranaggi ma i software. Non bisognava più rivestire un impianto, ma inventare nuovi oggetti. Gli ingegneri fornivano i componenti - la tastiera, una stampante. Io tentavo diverse soluzioni compositive fino a trovare quella più soddisfacente. Talvolta gli ingegneri si mostravano diffidenti, ma poi veniva Roberto Olivetti e diceva: "Fate come vuole lui". È l' architettura delle cose, il senso vero del lascito di Adriano».
dago e mario bellini
Qual è il peso dell' aspetto funzionale nei suoi disegni?
«Non eccessivo. È evidente che un tavolo debba svolgere un certo ruolo, ma fra le funzioni io includo anche quelle espressive, rituali, simboliche».
Quindi lei prende le distanze dal movimento moderno. O no?
«In parte. Ma del movimento moderno condivido la disposizione ad agire a largo spettro, dalla piccola alla grande scala. Dal cucchiaio alla città, come si diceva con un' espressione poi abusata e banalizzata».
Ed è stata anche la sua attitudine?
P101 olivetti
«Non mi ci sono messo d' impegno, ma al tempo stesso non ho potuto farne a meno. Dopo aver disegnato nel 1965 per l' Olivetti la P101, forse il primo personal computer al mondo, oppure il Pop, il mangiadischi portatile, dalla fine degli anni Ottanta sono diventate per me prevalenti l' architettura e il disegno urbano».
Il 1987 è anche l' anno di una mostra dei suoi progetti al MoMA di New York. Fu quella la svolta?
«Non parlerei di svolta. Già negli anni Settanta progettai degli edifici a Milano, in via Kuliscioff. La mostra fu comunque un passaggio importante».
Pop il mangiadischi portatile
Da allora prendono l' avvio i progetti più impegnativi, in Italia e all' estero: il Tokyo Design Center, il Centro Congressi a Cernobbio, il quartiere Portello a Milano, la sede della Deutsche Bank a Francoforte, fino ai lavori che l' hanno resa celebre, come il Dipartimento di Arti islamiche al Louvre o quello, che si concluderà entro l' anno, per l' Antiquario del Foro romano. Lei preferisce lavorare per il pubblico o per il privato?
«Per il pubblico, dietro il quale si individua una comunità. Questo nonostante le difficoltà in cui spesso s' incappa. Prenda i concorsi, per esempio. Quanti se ne fanno che poi restano sulla carta? La dico in modo cattivo: con i concorsi è come se molti committenti facessero giocare gli architetti».
mario bellini architects full
Un rammarico?
«La ristrutturazione della Pinacoteca di Brera. Ho vinto il concorso ma è tutto fermo. Sa cosa mi ha detto il direttore James Bradburne? "Architetto il suo progetto è lì, nella mia biblioteca, ma non lo tiro fuori per non lasciarmi influenzare"».
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