Alessandro Beretta per “La Lettura – Corriere della Sera”
todd haynes velvet underground
Le note sono quelle amate di tante canzoni, da Heroin a Sunday Morning , da I'll Be Your Mirror a Sweet Jane. Irrompono nei momenti chiave del nuovo documentario di Todd Haynes che in The Velvet Underground, un film Apple Original disponibile nel mondo dal 15 ottobre su Apple Tv+, racconta la storia della band che le ha create.
Un mosaico visivo dall'effetto travolgente accompagna le vicende del gruppo che ha reso celebre Lou Reed e un'idea inedita di rock negli anni Sessanta, un intreccio di rari materiali d'archivio e di cinema sperimentale, alternato con interviste a testimoni tra cui spiccano i membri ancora vivi della band, John Cale, che nel gruppo suonava viola elettrica, piano e basso, e la batterista Moe Tucker.
Dopo l'anteprima mondiale al Festival di Cannes a luglio e i passaggi ai festival di New York, Londra e San Sebastián, Todd Haynes ha accettato di proiettare il film in anteprima italiana in chiusura del Milano Film Festival, di cui chi scrive è direttore artistico. Per l'occasione, abbiamo intervistato il regista per «la Lettura» via Zoom nell'unica conversazione concessa alla stampa italiana dopo il festival francese.
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Come dichiara nel film il musicista Jonathan Richman, il fondatore dei Modern Lovers: «Non era rock' n'roll, era questa strana melodia». Perché era così nuova la vena sperimentale dei Velvet Underground?
«È un elemento ineffabile, e Jonathan Richman lo racconta in modo splendido, non potevi capire esattamente da dove derivava quel suono anche se ti trovavi lì, come lui, ai concerti.
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Era la combinazione dell'istinto assoluto di Lou Reed con quello altrettanto unico e diverso di John Cale e del loro incontro. I due hanno poi coinvolto Sterling Morrison alla chitarra e Maureen Tucker alla batteria e insieme hanno immaginato cosa fare con l'incredibile eccentricità del registro vocale di Nico.
Oltre alla musica, ci sono i testi e la loro sensibilità. Stava succedendo di tutto nel rock in quegli anni, ma i Velvet Underground hanno aperto nuove strade».
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Il documentario è anche il ritratto di una scena culturale esplosiva, New York a metà anni Sessanta. Come dichiara Jonas Mekas, uno dei padri del cinema sperimentale dell'epoca, non c'erano confini tra le arti. Sarebbe ancora possibile o è legato a quel tempo?
«Non voglio dire che non possa accadere di nuovo, ma è stato un momento intenso e unico. Come New Orleans tra Ottocento e Novecento o Parigi negli anni Venti, ci sono luoghi dove le cose accadono e non si riflettono in un solo linguaggio artistico, ma nel fatto che gli artisti escono insieme e si scambiano idee.
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Ci trovi gente molto diversa per estrazione sociale che si incontra per fare arte, non solo negli angoli riservati alle élite, e si crea una specie di collasso tra cultura alta e cultura bassa. A New York c'era tanta voglia di rompere le barriere che separavano il cinema dall'arte e dalla musica, ma anche quelle nelle relazioni sociali».
andy warhol lou reed
Un altro protagonista del film è Andy Warhol con il suo studio crocevia di tante esperienze, The Factory, che produsse anche il primo disco della band, «The Velvet Underground & Nico» (1967), con la famosa immagine della banana in copertina. Che ruolo ha avuto per lei?
«Warhol con tutte le contraddizioni che lo caratterizzavano, in bilico tra l'apertura e l'esclusività, ha aiutato la nascita della scena. Dorothy Dean, una delle attrici del suo Chelsea Girls , raccontando di quel periodo tra il 1965 e il 1966, esattamente quello in cui nacque la band, dice che era un'epoca d'oro, celestiale, dove era impossibile fare la mossa sbagliata».
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Nel documentario ci sono molti frammenti di cinema sperimentale di tanti registi: da Stan Brakhage a Jonas Mekas, da Tony Conrad a Jack Smith e altri. Come mai ha scelto di usarli?
«Quando fai un film che tratta di musica, che sia un documentario o una fiction, la sfida è sempre la stessa: devi trovare la controparte visuale. In questo caso è stato immediatamente evidente quale sarebbe stata, era già lì e ci è stata consegnata dalla storia, perché tutto il cinema sperimentale e d'avanguardia di quegli anni non era un elemento di sfondo per Warhol e i Velvet Underground, ma il firmamento in cui la band si è formata».
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Il gruppo era ancora senza nome...
«Sì, era senza nome e accompagnava dal vivo film sperimentali alla Filmmakers' Cinematheque di Jonas Mekas. Stavano in mezzo a quel mondo: John Cale viveva e collaborava con i filmmaker Tony Conrad e Jack Smith.
andy warhol con i velvet underground e nico
Uno dei primi cortometraggi di Warhol Andy Warhol Films Jack Smith Filming "Normal Love" , andato perduto nel 1964 perché sequestrato dalla polizia, era stato girato sul set dell'incompiuto Normal Love di Jack Smith. Barbara Rubin, regista dello splendido Christmas on Earth , era la connessione tra Bob Dylan e il suo manager Albert Grossman e tra Andy Warhol e i Velvet Underground. Era come un flusso che si muoveva collegando tra loro le persone.
L'ho abbracciato ed è diventato il modo più bello, toccante e distintivo per visualizzare quel periodo. Volevo giocare con le inquadrature nelle inquadrature, gli schermi multipli e in movimento, lo split screen e tutto questo deriva dal linguaggio di quel cinema. Era già disponibile, se non necessario, per questo progetto, ed è il modo che ho scelto per raccontare la band e la loro musica».
velvet underground
Da «Velvet Goldmine» (1998), tra glam rock e l'omaggio a David Bowie, a «Io non sono qui» (2007), ispirato a Bob Dylan, la musica è centrale nel suo cinema. Come sceglie chi raccontare?
«I film sui musicisti che ho fatto hanno sempre riguardato soggetti che, oltre ad avere contato nella mia vita, hanno veramente avuto un impatto sulla cultura e in cui la cultura si è riflessa nel loro lavoro al punto che la incarnavano e la condividevano con il proprio pubblico».
john cale, sterling morrison e lou reed the velvet underground
C'è un momento in cui diventa chiaro che i Velvet Underground erano contro la cultura hippie di quegli anni e nelle note di produzione scrive che i Velvet erano «queer». «Queer» contro «hippie», era così?
«Penso di sì e nel film lo spiega la performer Mary Woronov che si esibiva sul palco con i Velvet. L'attitudine omosessuale, e non contava essere realmente gay, era quella che distingueva New York da altri tipi di contro-cultura convenzionali e patriarcali, dove la madre terra era una divinità che preparava i dolcetti per gli hippie maschi.
I Velvet Underground avevano un atteggiamento che si rifletteva nella Pop Art e nel modo in cui guardavano il mondo, vicino al camp teorizzato da Susan Sontag, una cultura gay centrica che si esprimeva alla Factory».
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Perché era così speciale Lou Reed?
«Perché c'era qualcosa di sotterraneo, pericoloso, contraddittorio e oscuro nella sua curiosità, nella sua attrazione per certi scrittori, molti dei quali gay, che raccontavano in modo inconsueto l'identità, l'esistenza e l'esperienza sessuale. Era interessato al modo in cui tutti siamo toccati da sensazioni trasgressive e straordinarie».
Quando ascoltò i Velvet Underground per la prima volta che effetto le fecero?
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«Li sentii al college, mentre ascoltavo David Bowie, Patti Smith e il punk rock, inconcepibili senza di loro. Su di me hanno avuto l'effetto che racconta bene Brian Eno: ti fanno venire voglia di creare, che tu sia un musicista o, come nel mio caso, un filmmaker. Sono unici nell'avere spinto così tante persone a esprimersi artisticamente perché liberano qualcosa di nascosto in chi li ascolta. Credo lo facciano ancora, per davvero».
la banana di andy warhol sulla cover di the velvet underground & nico christa paffgen in arte nico andy warhol velvet underground todd haynes lou reed andy warhol 1 lou reed velvet underground