Giuseppe Scaraffia per il Domenicale de Il Sole 24 ore
lord byron
Lord Byron aveva per primo intuito che abbinare alla propria opera un’immagine in sintonia avrebbe moltiplicato la forza d’urto del suo messaggio. Quindi aveva scelto di incarnare per la sua epoca un personaggio molto vicino agli eroi dei suoi libri: il bel tenebroso, irresistibile e fatale, estraneo alla vita comune, attratto solo dalle sfide e dal rischio.
Pallidissimo, con i riccioli scompigliati dal vento della passione, lo sguardo cupo perso in un orizzonte invisibile, Byron incarnava perfettamente l’eroe preferito del romanticismo. Purtroppo oltre alla maledizione che credeva pendesse sulla sua famiglia aveva ereditato dalla madre anche la tendenza a ingrassare. Alto circa 1.74 m, una statura notevole per l’epoca, doveva sorvegliare il suo peso che poteva rapidamente passare dai 60 ai 90 chilogrammi. Ma un eroe tenebroso doveva indiscutibilmente restare snello a costo di diete pericolose, come quando si era costretto a mangiare limoni bevendo aceto.
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In questi telegrafici, sinceri e modernissimi diari - “Un vaso d’alabastro illuminato dall’interno. Diari” Adelphi - molto ben curati da Ottavio Fatica, appare ossessionato dalla linea. “Oggi ho pranzato regolarmente, per la prima volta da domenica scorsa – ed è di nuovo domenica. Il resto del tempo, tè e biscotti secchi – sei per diem. Quanto vorrei adesso non aver pranzato! – Pesantezza, torpore e sogni orribili mi stroncano. Carne non ne assaggio mai – e anche la verdura poco o niente”. Le cene londinesi sono un disastro. “Vorrei stare in campagna, per fare movimento – invece di essere costretto a rabbonirmi col digiuno… Quanto vorrei smettere di mangiare una volta per tutte”.
Attento alla sua immagine, durante un soggiorno a Roma aveva fatto irruzione nello studio dello scultore Thorvaldsen per farsi fare un busto. Opportunamente drappeggiato in un mantello, aveva assunto l'aria eroica dei personaggi dei suoi libri. Lo scultore, lusingato e irritato, aveva obiettato: “Non preferirebbe sedersi più comodamente? non c'è bisogno che prenda quell'espressione.” “È la mia.” “Davvero?”
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Invece, pensò Thorvaldsen, quell’inglese non sapeva posare e si agitava oppure assumeva una strana espressione contrita. Quando il busto fu finito, Byron osservò: “Non mi somiglia. Io ho l'aria più infelice.” Pochissimi sapevano, come ricorda Vincenzo Patanè (“L’estate di un ghiro. IL mito di lord Byron”, Cicero, p.569, €.22) che “dormiva con i bigodini di carta infilati tra i capelli”.
Insofferente di ogni convenzionalismo, Byron aveva rapidamente imparato il potere della scandalo e impersonava sul palcoscenico della fama il personaggio che gli altri osavano solo sognare di essere. La curiosità dei contemporanei sui suoi vizi sembra destinata a non spegnersi mai.
Quando gli scandali, dall’incesto al gioco d’azzardo, l’avevano fatto mettere al bando dall’aristocrazia inglese era partito per il Grand Tour. Aveva attraversato l’Europa portandosi dietro, oltre ai suoi cavalli, una quantità impressionante di bagagli, e una specie di zoo personale: un corvo e un falco, dei grossi gatti miagolanti, una volpe e due scimmie. Eppure era difficile dissipare la sua malinconia. “Per quale ragione sono sempre stato, in ogni epoca della mia vita, un ennuyé?”
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Ormai celebre sfogava ovunque una sensualità inesauribile quanto indiscriminata, in cui non mancavano avventure omosessuali. Ma le donne erano la sua ossessione: “Certe sono contesse – & altre mogli di ciabattini – alcune nobili – alcune di ceto medio – altre basso – & tutte puttane”. Per soddisfare più comodamente i suoi desideri, Byron si era fatto costruire una copia della carrozza con i sedili reclinabili, usata da Napoleone nelle sue campagne militari.
Molto sportivo, anche per bilanciare il disagio dovuto a un piede deforme che lo costringeva a zoppicare, aveva attraversato a nuoto lo stretto dei Dardanelli. Ma se aveva attraversato il lago di Ginevra per approdare gocciolante dalla stupita madame de Staël non era un caso, ma un modo per ribadire la sua virilità di fronte a una donna intellettuale che “sul piano intellettuale avrebbe dovuto essere un uomo”. Pur sentendosi lusingato dai suoi elogi, non osava lodarla. “Io non parlo – non so adulare, e non sto ad ascoltare, a meno che non si tratti di una donna graziosa o sciocca”. Invece l’eloquenza scintillante della Staël lo intimidiva. “A me non piace granché – non fa che parlar di me o di lei, due argomenti che non mi entusiasmano più di tanto – specie le rispettive opere”.
SCARAFFIA IL DEMONE DELLA FRIVOLEZZA
Byron aveva rapporti difficili con le donna emancipate. Era così anche con Mary Shelley, la moglie del suo amico Percy Bysshe, che aveva un culto per la sua opera e aveva risolto il problema della sua illeggibile grafìa. “Copiare un poema in bella copia è uno strazio intollerabile. E anche se avessi a disposizione un amanuense sarebbe del tutto inutile, poiché i miei scritti sono così difficili da decifrare”. Dopo la morte del marito, Mary non interruppe la loro collaborazione e cominciò a lavorare sul “Don Juan” di Byron, che l’aiutò finanziariamente, ma non capiva il suo desiderio di libertà e pensava solo a farla rientrare in Inghilterra.
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Lo scrittore stava invecchiando rapidamente, i riccioli che avevano fatto sospirare tante donne si stavano ingrigendo e “le zampe di gallina sono state notevolmente prodighe delle loro indelebili impronte”. Nel carnevale di Ravenna del 1820, quel trentenne aveva scelto una singolare maschera di cera che rappresentava “un uomo molto serio e pensieroso tra i quarantacinque e cinquant'anni”. Ma un eroe poteva diventare vecchio?
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Dopo qualche incidente iniziale il legame con la giovane contessa Guiccioli si stava stabilizzando, col rischio di annoiarlo. L’unica distrazione era fornita dai carbonari italiani che complottavano maldestramente contro l’Austria. Sempre attratto dalle avventure, Byron li aveva finanziati e riforniti di armi. Con l’unico risultato di vedersele riportare in casa quando una legge aveva sancito pesanti pene per chi ne fosse trovato in possesso.
L’idea di andare a combattere per l’indipendenza della Grecia dall’impero ottomano era arrivata al momento giusto, anche se pochi amavano i turchi più di lui. E i greci oltre ad essere dei “fottutissimi bugiardi” erano avidi, ingrati, inaffidabili e litigiosi. Tuttavia resisteva. “Resterò fedele alla causa finchè ci sarà una tavola a cui aggrapparsi”. Il diario si arresta tre mesi prima della sua morte. Byron aveva inutilmente cercato di sfuggire ai salassi dei medici, “una maledetta banda di macellai”. Sentendo la disperazione dei presenti, molti dei quali piangevano, aveva esclamato in italiano, rivolgendosi a Tita, il gondoliere venziano diventato suo servitore: “Oh! Questa è una bella scena!”.
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