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Alberto Simoni per “la Stampa”
Dopo Starbucks, tocca ad Amazon lasciar entrare nei suoi stabilimenti il sindacato. Il tetto di cristallo dei diritti si frantuma in un magazzino di Staten Island, il quinto borough di New York, dove 2.654 dipendenti della società di Jeff Bezos hanno detto sì alla contrattazione collettiva e aperto la strada all'Amazon Labor Union. I contrari sono stati 2.131. È una decisione storica che potrebbe generare un effetto a catena che già si vede con Starbucks.
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Anche in questo caso era stato lo Stato di New York in dicembre a fare da apripista. I baristi di un caffè di Buffalo avevano aderito al sindacato dopo mesi di braccio di ferro; da Seattle si erano mobilitati i vertici della società per impedire dapprima il referendum e poi per contrastarne l'esito. Senza fortuna. Da dicembre altri punti vendita hanno aderito al sindacato.
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E lo stesso percorso potrebbe seguirlo Amazon. Derrick Palmer, addetto alla composizione delle scatole per la spedizione, ha condiviso con il New York Times il suo auspicio «che molti adesso ci seguiranno». Un riferimento a quanto accadrà il 25 aprile quando un'altra sede di Amazon a Staten Island la LDJ5, sarà chiamata a esprimersi.
Resta in sospeso il procedimento in uno stabilimento in Alabama che per primo lo scorso anno aveva tentato lo strappo. Nel voto dei dipendenti aveva prevalso il no. Poi gli ispettori del Dipartimento del Lavoro avevano annullato la consultazione per pressioni indebite da parte dei dirigenti del gruppo di Bezos.
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In concomitanza con il voto a Staten Island si è tenuto anche quello in Alabama, dove in testa ci sono i contrari ma ci sono nuovamente contestazioni su 476 schede e il processo di revisione durerà settimane. Comunque vada in Alabama, i sindacati hanno messo piede nel gruppo simbolo della new economy che impiega 1,6 milioni di persone nel mondo e che in America è il secondo datore di lavoro con 950 mila dipendenti: un lavoratore americano su 153 è stipendiato da Bezos.
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Il segnale giunge in un momento in cui le adesioni al sindacato sono al minimo storico: appena il 10,3% dei lavoratori Usa ha una "union card", eppure il fermento fra attivisti - soprattutto giovani - per le condizioni di lavoro nelle grandi catene è molto forte. La sfida ad Amazon a Staten Island ha anche un protagonista: è Christian Small, 33 anni, un ex rapper che nel 2015 aveva abbandonato la musica trovando impiego prima in New Jersey e poi al JFK8 passando da Walmart, Target e Home Depot. L'idea di lanciare un sindacato era sorta durante il Covid quando Small aveva denunciato le scarse condizioni di sicurezza.
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Small venne licenziato dopo essersi presentato al lavoro benché in quarantena. Il suo siluramento, nella primavera del 2020, lo trasformò nel volto della protesta e attirò le attenzioni delle autorità statali sulle condizioni nel magazzino di Amazon. In una conversazione diffusa dai media, David Zapolsky, consigliere generale di Amazon, aveva definito «non intelligente e articolato» Small suggerendo alla compagnia di «trasformarlo nel volto dell'intera campagna per il movimento sindacale» convinto che metterlo alla guida significava azzopparne le chance di riuscita.
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Small ha trascorso due anni in giro per l'America a propugnare la causa ed è diventato la voce della protesta, invocando il boicottaggio di Amazon Prime e costruendo un albero di Natale di scatole Amazon fuori dalla villa di Bezos. Lo scorso anno ha annunciato il progetto di "sindacalizzazione". Che da ieri è realtà.
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