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    IL TRADIMENTO, STORIE DI SPIE, FUCILAZIONI, DOPPIO GIOCHI E GENTILUOMINI. UN SAGGIO DI MARCELLO FLORES: DA MATA-HARI A SNOWDEN – PERSONAGGI MISEREVOLI E GRAN SIGNORI DAVANTI AL PLOTONE D’ESECUZIONE - KIM PHILBY: “I MIEI AMICI RUSSI NON LI HO MAI TRADITI. IL BENE CHE HO FATTO E’ PIU’ GRANDE DEL MALE”


     
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    Giuseppe Scaraffia per Sette – Corriere della Sera

     

    mata hari mata hari

    Cent’anni fa, all’alba del 15 ottobre 1917 era ancora buio. Al poligono di tiro di Versailles la sentinella con la baionetta sul fucile aveva il cappotto imbiancato dalla brina. Le popolane si scostarono per lasciare passare il corteo di auto che portava Mata-Hari all’esecuzione: “Avrai quello che ti meriti, sgualdrina!”, “A noi danno cinque franchi per tornire gli obici! A lei ne davano mille per ballare.”

     

    Raffiche di vento e di pioggia sollevarono la nebbia umida. Mata-Hari avanzò  disinvoltamente tra due ali di truppe, come se le passasse in rivista. Accennò un sorriso al giovane comandante del plotone d’esecuzione che la guardava perplesso, temendo che esplodesse in una crisi isterica. Si lasciò legare docilmente al palo.

     

    mata hari mata hari

    I due gendarmi le fecero una legatura finta, da teatro, da cui si sarebbe potuta liberare facilmente, ma non lo fece. Non voleva uscire dalla parte che la storia le aveva assegnato. Guardò negli occhi il comandate del plotone: “Monsieur, vi ringrazio.” Non volle che le bendassero gli occhi. Mata-Hari non significava Luce del Mattino?

     

    Dopo gli spari crollò in ginocchio, poi si afflosciò sull’erba. Un dragone la prese per i capelli per alzarle la testa, poi le sparò un colpo di grazia alla tempia. Un medico militare le sbottonò l’abito per metterle lo stetoscopio sul seno, ma fu investito da uno sbocco di sangue. Allora soddisfatto alzò la testa barbuta scandendo: “Un colpo dritto al cuore!”.

     

    I giornali, sottoposti a una rigida censura, commentarono in modo discorde la fine di quella che avevano definito una pericolosa spia. “La morte è stata una sfida vinta con la serenità e il sorriso.”. “Creatura diabolica e macabra meritava solo la morte!”.

     

    mata hari ESECUZIONE mata hari ESECUZIONE

    In realtà gli elementi a carico di Mata-Hari erano ridicoli e inconsistenti. Al massimo si era trattato di tentativi di estorcere il denaro ai vari servizi segreti, millantando conoscenze e prestazioni inesistenti. A cercare nuove fonti di guadagno in un campo in cui non era minimamente versata, lo spionaggio, non l’aveva spinta una vocazione demoniaca, ma un rapido invecchiamento e alcuni insuccessi.

     

    Poi, per raddoppiare i guadagni, subito ridotti dall’insignificanza delle informazioni trasmesse, si era data al doppio gioco. Ma anche lì era riuscita solo a dare alle agli agenti dell’Asse l’impressione di essere stati truffati, spingendoli a bruciarla trasmettendo un messaggio con un codice già decifrato dai francesi.

    FLORES FLORES

     

    Arrestata, il suo processo diventò il palcoscenico su cui il nuovo secolo giudicava e giustiziava la Belle Epoque. La femme fatale era il capro espiatorio ideale cui addebitare le sconfitte e le stragi della guerra. “Mata Hari, spiega Flores, aveva tutte le caratteristiche per incontrare l’idea prevalente di inganno, lusso, potere, denaro e coraggio che si attribuivano alle spie donne”. Tuttavia Mata seppe approfittarne, tramutando il tribunale e la sua esecuzione in un ultimo, quasi perfetto spettacolo. Nel 1949 il procuratore Mornet, che l’aveva fatta condannare a morte, dichiarò in una trasmissione radio: “Non c’era di che frustare un gatto”.

     

    La danzatrice è uno dei tanti celebri casi presi in esame da Marcello Flores in un saggio vivido e stimolante, “Il secolo dei tradimenti. Da Mata-Hari a Snowden 1914-2014”, Il Mulino, seguito di “Traditori”, in cui analizza sapientemente il fluttuare del concetto di tradimento.

     

    Uno degli esempi più paradossali di traditore è lo scrittore Maurice Sachs, l’autore del “Sabba”. Bugiardo, ipocrita, truffatore e ladro, quando la Francia viene occupata si arruola nel servizio di lavoro obbligatorio e segue i nazisti ad Amburgo. Lì che quell’ebreo errante scopre la sua vera vocazione.

     

    Maurice Sachs Maurice Sachs

    Scrive a un’amica: “Lavoro in un’organizzazione in cui il mio senso dell’organizzazione e dell’intrigo può essere valorizzato al massimo. Guadagno onestamente e a sufficienza per vivere. Sono libero, ho una camera carina che prende luce da un giardino. Esco, vedo gente”. Peccato che la misteriosa organizzazione sia la Gestapo che gli consente di ritrovare i lussi conosciuti ai tempi del mercato nero parigino.

     

    La sua simpatia e il suo fascino spingono molti sventurati a confidargli le sue idee politiche, finendo immediatamente arrestati. Sachs è entusiasta: “Quelli della Gestapo sono dei maghi, cambiano la sorte di un uomo con un colpo di telefono”. Quando è a corto di vittime, fa da agente provocatore o denuncia i trafficanti locali del mercato clandestino in cui nel frattempo ha ripreso a fare affari. A perderlo è un momento di debolezza. Proprio lui che aveva detto: “Si tradisce bene solo chi si ama”,  si lascia commuovere da un gesuita al centro di un’organizzazione cattolica antinazista e non lo tradisce.

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    “E’ un bambino pieno di sogni e di ideali, la sua ingenuità è commovente”. Persino quando i nazisti, irritati dalle sue truffe e dalle sue macchinazioni, lo spediscono in carcere, continua a fare l’informatore per loro, mentre formula una serie di ottimistici progetti letterari, tra cui una storia degli ebrei. Evacuato con gli altri prigionieri nel 1945, viene ucciso da un S.S. per essersi rifiutato di camminare dopo giorni di marcia.

     

    Giustamente Flores cita il caso di uno scrittore collaborazionista francese, Robert Brasillac. Brasillach amava i classici, il cinema, la gioventù e la sua famiglia. Era stato sedotto dalla sirena del fascismo. A molti giovani intellettuali il totalitarismo di destra o di sinistra sembrava un modo per sottrarsi alla corruzione e alla mediocrità della democrazia.

    robert brasillach robert brasillach

     

    All’inizio della guerra, Brasillach era stato catturato dai tedeschi. Nel campo di prigionia aveva scritto e fatto rappresentare una “Berenice”. In quel periodo fluido ebbe contatti con Roger Vailland, che gli confessò, nel suo nihilismo, di sentirsi attratto dai nazisti. Pochi mesi dopo Vailland entrava nella resistenza. Invece Brasillach, liberato su richiesta della repubblica filonazista di Vichy, iniziava a chiedere a gran voce sulla sua rivista, “Je suis partout”, la testa degli ebrei, dei comunisti e dei gaullisti.

    SARTRE SARTRE

     

    Quando i tedeschi si ritirarono, Brasillach non fuggì, ma rimase a Parigi. Qui inizia il suo periodo eroico. Pur sapendo di rischiare la fucilazione, si consegnò appena seppe che i partigiani per ricattarlo avevano messo in carcere sua madre. Non fu facile, perché il funzionario cui si era consegnato usciva come lui dall’Ecole Normale e non aveva la minima voglia di fare arrestare un membro della sua stessa casta. Ma Brasillach insistette.

     

    Durante la detenzione, sembrava non sentire il peso delle catene che portava. Scriveva poesie e lettere, parlava con i compagni. Al processo si comportò con una dignità che stupì tutti i suoi nemici, ed erano tanti. Il denunciatore isterico aveva ceduto il posto a un giovane eroe. De Gaulle, temendo di compromettere la destra graziando un fascista, non volle  salvarlo.

    Roger Casement Roger Casement

     

    A trentasei anni, Brasillach si trovò davanti al plotone d’esecuzione. Non diede segni d’emozione. Stava diventando il personaggio che non era riuscito a creare. Rifiutò la benda sugli occhi e gridò: “Viva la Francia comunque!” L’avvocato si avvicinò e intinse il fazzoletto nel sangue, per darlo alla sua famiglia.

     

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    La leggenda di Brasillach era nata. Il querulo polemista sarebbe stato dimenticato. Sarebbe rimasto solo il giovane coraggioso ingiustamente condannato. Simone de Beauvoir che con Jean-Paul Sartre non aveva firmato l’appello per salvarlo dalla pena di morte firmato da intellettuali come Camus e Valéry, dovette ammettere: “Desideravamo la morte del direttore di “Je suis partout”, non di quest’uomo pronto a morire con dignità. Più il processo assumeva l’aspetto di una cerimonia e più sembrava scandaloso che potesse terminare con un vero versamento di sangue”.

     

    Del resto, ricorda Flores, anche l’irredentista irlandese Roger Casement, che durante la prima guerra mondiale si era alleato ai tedeschi per fare armare un’insurrezione antibritannica, aveva saputo morire con stile. Persino il suo carnefice lo aveva notato: Avrò sempre in mente l’impressione di compostezza del suo nobile comportamento, il sorriso di contentezza e felicità, quando aiutò volontariamente il mio assistente [...] Roger Casement mi è sembrato l’uomo più coraggioso tra gli infelici che ho giustiziato [...] Può anche essere stato un traditore, ma è morto come un soldato”.

    kim philby kim philby

     

    Più si avanza nel secolo e più il concetto di tradimento diventa sfumato. "Mi trattano da spia, da traditore: Ma a chi e a cosa? Non ho mai fatto parte dell'establishment. Toccava a loro sapere cosa facevo. I miei veri amici, i russi, non li ho mai traditi. Il bene che ho fatto è più grande del male", protestava Kim Philby, uno degli agenti doppiogiochisti più celebri del dopoguerra.

     

    Lo avevano preceduto nella fuga oltre cortina due colleghi ed amici, Guy Burgess e Donald Maclean, le due spie del secolo, perfetti rappresentati di quella che Orwell definiva "la sinistra dei finocchietti". Maclean, alto e bello quanto timido e maldestro, colpiva più dell'irritabile e logorroico Burgess. Non di rado li si vedeva spuntare nei salotti di Mosca, pallidi e molto eleganti. Le signore li guardarono con golosità, ma se ne disinteressavano subito: si sbronzavano di vodka troppo facilmente.

    Guy Burgess1 Guy Burgess1

     

    Insieme a Philby, erano per l’URSS ospiti imbarazzanti e sempre spiati, emblemi della decadenza dell’alta borghesia occidentale che avevano tradito. Il sarto di Bond Street commentava compiaciuto che le misure di quei clienti d’oltre cortina non avevano subito sensibili variazioni. Nessuno era più inglese dei tre gentlemen insabbiati dalla tempesta europea nell’inospitale spiaggia russa.

    philby a Mosca philby a Mosca

     

    Il tradimento del trio di Cambridge, che aveva anteposto l’amicizia maschile e la superiorità di classe al patriottismo, era stato il grande choc dell’Inghilterra, riecheggiato in tanti romanzi, da Le Carré a Banville, in cui non si fa che cercare il famigerato quarto traditore. Per trovarlo era stato necessario puntare molto in alto, tra gli intimi della regina d’Inghilterra, che in nome di una solidarietà di élite tipicamente aristocratica e inglese l’avrebbe difeso fino all’ultimo.

     

    Il consigliere artistico di Buckingham Palace, Anthony Blunt era stato nominato baronetto nel 1955, proprio l’anno dello smascheramento di Philby. Come pensare che quell’uomo raffinato, grande collezionista ed esperto di Poussin, fosse una spia del Cremlino?

     

    guy burgess guy burgess

    Quando Philby, suo amico e superiore nei servizi segreti, aveva defezionato, Graham Greene era rimasto interdetto. In un primo momento l'aveva giudicato male, ritenendo il suo tradimento semplice frutto di un’ambizione personale. Poi nell'introduzione alle memorie di Philby, "La mia guerra silenziosa", aveva puntualizzato: "Oggi sono contento di essermi sbagliato. Lui serviva una causa e non se stesso, e adesso la mia antica simpatia per lui è tornata".

     

    Donald Maclean Donald Maclean

    Certo, ammetteva, Philby aveva tradito il suo paese. "Ma chi di noi non ha commesso tradimento per qualcuno o per qualcosa più importante di un paese?". E aveva ribadito il concetto in una conferenza tenuta ad Amburgo, intitolata non a caso "L'elogio della slealtà": "Non ho mai creduto nell'importanza assoluta della lealtà verso il proprio paese. Mi sembra di gran lunga più importante la lealtà verso le persone."

     

     “Io ero la moglie di Majakovsky, lo tradivo come lui tradiva me. E tutte le chiacchiere sul triangolo e sull’amour à trois non hanno niente a che vedere con quello che in realtà c’era fra noi”, diceva Lili Brik che aveva continuato a vivere col marito, malgrado il noto legame con il poeta e varie altre storie. Quello di cui però non parlava erano i probabili legami con la Ceka, la polizia segreta comunista. Inutile ricordare il gigantesco groviglio di tradimenti imposto dall’Urss ai paesi satelliti con una rete di ricatti e di minacce. Lì “la sindrome della guerra civile latente e del tradimento diventa costitutiva della mentalità di governo”.

    Vladimir Majakovskij con Lili Brik a Yalta nel 1926 Vladimir Majakovskij con Lili Brik a Yalta nel 1926

     

    “L’epoca del tradimento, la sua lunga storia legata alla fedeltà allo stato e alla nazione, al sovrano e alla patria, conclude Flores, con il nuovo millennio sembra dissolversi e lasciar spazio a un mondo in cui l’uso del termine tradimento si amplia a dismisura nei confronti di ogni comportamento ritenuto inaccettabile o sgradevole, concentrandosi sempre più soprattutto all’interno della sfera privata o, in quella pubblica, come insulto e accusa generica”. Ma forse aveva ragione Jean Guéhenno quando diceva: “Il vero tradimento è seguire il mondo come va, e occupare la mente a giustificarlo”. 

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