Giulio Laroni per ilriformista.it
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Non è facile accostarsi dialetticamente all’emergenza Coronavirus e alle sue implicazioni filosofiche, sociali e politiche. Il dibattito si è infatti polarizzato, almeno nell’immaginario comune, in due schieramenti ugualmente ideologici: da una parte i sostenitori del governo senza se e senza ma, dall’altra sovranisti e no-vax. I pensatori più lucidi si sono sottratti a questa facile dicotomia e hanno scelto strade più audaci. Lo ha fatto, ad esempio, Gianni Vattimo: la sua analisi è complessa, all’insegna di quell’atteggiamento ermeneutico che contraddistingue tutta la sua filosofia. La prima domanda che gli pongo riguarda lo “stato di eccezione”.
Giorgio Agamben ha affermato che lo stato di polizia sia stato una risposta inadatta a fronteggiare l’emergenza in atto. Altri, come Bruno Moroncini, si sono trovati d’accordo con le misure prese dal governo.
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Non condivido la posizione di Agamben, mi sembra un po’ radicale. Non sono tanto polemico nei confronti dei provvedimenti delle autorità sulla questione del Coronavirus perché sono convinto che il pericolo del contagio effettivamente sussista, che non sia, per così dire, l’invenzione di qualche cattivo che ci vuole imprigionare. Naturalmente posso non essere d’accordo su certe esagerazioni, per esempio la questione dei congiunti la trovo molto poco ragionevole.
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La sinistra libertaria e anarchica ha sostenuto che la radicalità dei provvedimenti del governo sia stata solo apparente: da una parte venivano perseguiti con inaudita severità i comportamenti privati, dai runner ai possessori di cani; dall’altra troppe attività continuavano a funzionare. Laddove gli spostamenti per motivi di lavoro venivano autorizzati, quelli legati al gioco e agli affetti venivano duramente repressi.
Ho l’impressione che abbiano sofferto del Coronavirus soprattutto i poveri. Stare in casa è chiaramente diverso per chi vive in un appartamento di cinque stanze e chi ne ha uno di una stanza e mezza. E questo è sicuramente una disparità di classe. Si è fatto troppo poco per venire incontro ai problemi di coloro che non avevano una grande disponibilità economica o di spazio, il che è fondamentale.
Quanto al problema della produzione, era comunque importante lasciare lavorare coloro che dovevano lavorare perché altrimenti “non mangiavamo” e tutto si paralizzava nel giro di poche ore. Personalmente non mi spostavo né per motivi di lavoro né per motivi di affetto, quindi non ho esperienza su questo piano, ma per quel che ho sentito e capito, la questione della repressione non mi è sembrata così terribile.
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Eppure sembra che l’ideale separazione tra esistenza biologica ed esistenza non necessaria si sia accompagnata a quella tra vite necessarie e vite superflue. Dai clochard sanzionati dalle Forze dell’ordine, ai carcerati costretti a contagiarsi, alla parziale chiusura dei porti per le navi di soccorso, fino alla vera e propria strage nelle case di riposo, l’impressione è che alcune vite siano considerate meno essenziali di altre.
Questo mi pare molto visibile per esempio in Brasile, dove si lasciano morire troppe persone, non si fanno tamponi né indagini, non ci sono protezioni. Noi non siamo in una situazione brasiliana, ma quello dei carcerati è un problema, benché non sappia come risolverlo. È una cosa scandalosa che non si pensi a coloro che sono rinchiusi.
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E lo stesso dicasi per la questione dei porti, delle navi di soccorso. Sono questioni fisiologicamente legate a una società costruita in un certo modo, le cui diseguaglianze emergono anche nell’ambito del Coronavirus. Ha ragione Zizek quando dice che solo un nuovo comunismo solidale ci può salvare, anche se non sono sicuro che Zizek abbia la stessa mia idea di comunismo.
È dunque d’accordo con la tesi di Zizek?
Sì, il Coronavirus ha messo in maggiore evidenza le diseguaglianze terribili che imperano nella nostra società e l’ideale non può che essere quello di un’alternativa radicale. Avevo scritto che solo un comunismo ermeneutico – nel senso di un comunismo non scientifico – ci salverà. Non è accettabile un futuro in cui la società sia sempre più organizzata, controllata, rigidamente prevista, in cui tutti ci trasformiamo in degli automi. Lo so, il mio timore si deve anche al fatto che mi sono formato alla scuola di Heidegger, eppure non è tanto inverosimile.
Anche la conversazione che stiamo avendo potrebbe essere registrata da qualcuno: se ora dicessimo “bomba” e poi facessimo il nome di qualche onorevole, magari domani mattina ci verrebbe a cercare la polizia. Non lo dico per esagerazione, ma tutto sommato è vero che siamo già molto controllati. Non mi sento, insomma, in una società del tutto libera, democratica, molteplice, anche se in questo momento non ritengo affatto di essere in un regime dittatoriale. Ma il fatto che io non lo senta non significa che sia davvero cosi…
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Durante il lockdown si è tornati a parlare della didattica a distanza. Non sono stati pochi coloro che hanno invocato l’insegnamento da remoto come strumento destinato a prendere il posto delle lezioni in presenza.
L’idea di una scuola che funzioni solo attraverso il computer mi scandalizza molto. A parte la differenza tra chi ha una casa con il computer e chi non ce l’ha – cosa fondamentale che bisognerebbe risolvere – e a parte la necessità di fornire tutte le famiglie di un collegamento a internet, io non sarei tanto contento di una scuola del genere. Preferirei tentare delle situazioni ragionevolmente controllate ma che prevedano il rapporto tra maestro e allievo. Ormai non faccio più lezione da molti anni, ma il contatto diretto con gli studenti, le domande, anche la direzione delle tesi di laurea non sono facilmente praticabili senza la presenza. Per cui inciterei i poteri a studiare delle soluzioni che salvino l’essenza della scuola in questo senso.
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Si è parlato molto anche del lavoro a distanza. L’ad di Twitter Jack Dorsey ha recentemente affermato che d’ora in avanti consentirà ai suoi dipendenti di lavorare indefinitamente da remoto.
Se tutti lavorano al computer nella loro casetta è molto difficile costruire una coscienza di classe o dare vita a un sindacato, senza contare che ci sono un sacco di occupazioni che non è possibile svolgere a distanza. Una conversione verso il lavoro da remoto vorrebbe dire porre in essere un rapporto diretto con un padrone invisibile, ma tutt’altro che inesistente. Tutto ciò non mi piace umanamente, e nel comunismo ideale di cui sarei sostenitore insieme a Zizek non sarebbe adeguato.
Nel “remote working” il potere pervasivo del lavoro si fa più forte…
Certo, perché non ci sono orari. Il lavoro a distanza implica una maggiore disciplina del lavoratore, una minore possibilità di contatto col prossimo e forse la fine di ogni organizzazione sindacale, il che è pericoloso.
E c’è il rischio di erodere ulteriormente il confine tra pubblico e privato.
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Saremmo tutti arruolati giorno e notte, e questo non mi piace. La società totalmente amministrata, come la chiamava Adorno, ha tante espressioni e una di queste potrebbe essere appunto la riduzione del lavoro a lavoro a distanza e a lavoro on demand: ti telefono e tu ti metti al computer. E poi c’è il tempo libero. Come diventa il tempo libero quando tutto è virtuale?
Sembra che il tempo libero sia considerato sempre meno importante, che tutto debba essere mosso da fini utilitaristici…
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Il tempo libero è considerato funzionale a consumare tutto il necessario per far andare avanti la macchina. Non credo che nessuno voglia l’abolizione del tempo libero, bensì l’utilizzazione del tempo libero secondo degli schemi. La televisione è accettabile, ma per chi desidera suonare l’arpa tutto è già più complicato. Non è che il tempo libero sia uno scandalo per il mondo capitalistico, ma lo diventa se viene utilizzato troppo liberamente, se non lo si sottomette alle regole previste.
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