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    BASTA LA PAROLA: IN GLORIA DI MARCELLO MARCHESI, UN GENIO DEL CALEMBOUR, DELLO SLOGAN PUBBLICITARIO E FREDDURE CALDE: “NON CREDO ALL’AMORE A PRIMA VISTA. SCETTICO? NO: MIOPE” - DEFINI’ MORO “IL DOTTOR DIVAGO”, E MASTROIANNI “MARLON BLANDO”


     
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    Giuliano Aluffi per “la Repubblica”

     

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    Marcello Marchesi è stato l’Omero informale della nuova lingua italiana nata dal boom economico, quella lingua rigenerata dal vigore creativo della pubblicità e della nuova voglia di spettacolo e disimpegno emersa prepotente già dal dopoguerra.

     

    Di un Omero informale, non ufficiale e ben poco celebrato si è trattato: solo così poteva essere per un uomo che ha speso le risorse infinite del suo ingegno linguistico dissipandole in più di quattromila caroselli, diciannove libri, una cinquantina di sceneggiature cinematografiche

     

    (tra cui il primo film comico italiano, Imputato, alzatevi!, del 1939 con protagonista Macario, e tanti film di Totò), una trentina di spettacoli di rivista (compresa la prima commedia musicale italiana, nel 1955: Valentina, una ragazza che ha fretta) e testi di canzoni (tra cui la hit Bellezze in bicicletta). E tanta satira giornalistica, per i gloriosi Bertoldo e Marc’Aurelio.

     

    Marchesi è stato per la parola quello che Jacovitti è stato per il fumetto: un genio incontenibile, infaticabile e generosissimo. Un big bang della creatività — capace di generare universi divertenti e improbabili — nascosto sotto i panni di un gentleman compassato come quel signore di mezza età a cui diede corpo, mente e voce per la Rai.

     

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    Oggi noi tutti usiamo le frasi di Marchesi, a ognuno può capitare di dire “Il signore sì che se ne intende”, o “Con quella bocca può dire ciò che vuole” o “Anche le formiche, nel loro piccolo, si incazzano” ma ancora troppo pochi sanno che sono tutte frasi sue, del primo e ancor’oggi inarrivabile copywriter italiano. Per aiutarci a colmare la lacuna, ci voleva un’opera dal taglio quasi enciclopedico come l’Agenda Marchesi curata da Mariarosa Bastianelli e Michele Sancisi.

     

    Una strenna zeppa di saggi inediti che svelano l’artista e l’uomo — compresi gli affettuosi ricordi di chi collaborò con lui, come Enrico Vaime, Guido Clericetti e Paolo Villaggio — e materiale d’archivio ormai introvabile, come foto e locandine dei suoi spettacoli e gli scritti di corsa, più che corsari, che Marchesi vergava su bloc notes e fogliettini ogni volta che, avuta un’illuminazione improvvisa per qualche nuovo lazzo, aforisma, o sketch da affidare a Walter Chiari, sorgeva il bisogno di fermarla su carta per strapparla all’oblìo.

     

    Marchesi è stato un genio indaffaratissimo, felicemente perseguitato dal tempo e dagli impegni. «Se ritardo una mezza giornata è la fine del mondo, se muoio non se ne accorge nessuno» aveva appuntato su un foglio questo stakanovista del varietà che, quando doveva vedersi con un collaboratore, lo avvisava: «Domani mattina vediamoci sul tardi. Facciamo alle otto».

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    Già, era proprio milanese Marchesi, per nascita e senso del dovere. Ma si era presto innamorato di Roma, dove passò gli anni del suo felice sodalizio con Vittorio Metz, coautore di quei film di Totò allora vilipesi dalla critica e oggi rivalutati, ma sempre amati dal pubblico. Metz e Marchesi affittavano una stanza all’albergo Moderno con due macchine da scrivere — una sul letto e l’altra nella ritirata — e un perpetuo svolazzo di fogli e amenità. Scrivevano tanto, e qualche battuta l’affi-davano a “ragazzi di bottega”: Ettore Scola, per dirne uno, iniziò così.

     

    Ma sono tante le carriere che si sono impennate verso l’alto grazie a Marchesi, anche ottimo talent scout — e basterà citare Walter Chiari, Mike Bongiorno, Gino Bramieri, Mario Riva, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Gianni Morandi, Age e Scarpelli.

     

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    Un’eredità, quella che ha lasciato, molteplice e caleidoscopica: riempie di sorrisi l’intero tessuto dello spettacolo italiano dagli anni Trenta a quel triste 1978 in cui, a soli sessantasei anni, Marchesi sbatté la testa su uno scoglio per far divertire con un tuffo il figlio di un anno. Far sorridere gli altri, solo questo: la missione serissima di tutta un’impareggiabile vita.

     

    2. HO UNA CARRIERA COSÌ LUNGA DA FAR VENIRE IL SOSPETTO CHE IN REALTÀ IO SIA MIO FIGLIO

    Testi di Marcello Marchesi pubblicati da “la Repubblica”

     

    Sono nato mentre in tutta Italia si cantava “Tripoli, bel suol d’amore”. Quando arrivai, non ero atteso proprio per quell’ora e, nella confusione che seguì, mi legarono l’ombelico col nastrino tricolore di un pacco che conteneva un panettone.

     

    Scrivo dalla mattina alla sera, ma non ho archivio. Mi illudo che i testi che non riesco a trovare siano piuttosto belli. Mi piace solo quello che farò.

    Riepilogando: ho quarantotto anni, ottanta chili, cento delusioni, mille desideri. Fra questi, quello di fischiare un motivo dixieland accompagnato da una grande orchestra. Forse ci riuscirò.

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    Per ora, dopo aver fumato sessanta sigarette al giorno, chiuso in una stanza con Metz per quattordici anni (lui fumava, io respiravo semplicemente il suo fumo) a scrivere riviste, sceneggiature e canzoni, mi dedico alla pubblicità. Lavoro per non lavorare, ma non ci sono ancora riuscito (a non lavorare). Per disintossicarmi dai formaggini, dai detersivi, dai dentifrici, peraltro utilissimi, in cui sono immerso, scrivo delle poesie. Più che altro, vado a capo ogni tanto.

     

    È un’abitudine che ho preso durante la guerra, quando mancava la carta, e scrivevo sul bordo bianco del giornale; per cui tutto, anche un indirizzo, assumeva l’aspetto di una poesia. Anche se non vi piacciono, hanno un pregio, sono inedite e voi siete i primi a leggerle, dopo, s’intende, i miei famigliari.

     

    Ah, dimenticavo: ho un altro desiderio; mi piacerebbe non morire per vedere come va a finire.

    Manoscritto dall’archivio privato della famiglia Marchesi

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    Forse qualcuno mi suggerisce ciò che dico

    Mia madre era una medium. Una sera mia madre, appena caduta in “trance”, si mise a parlare con voce da uomo.

     

    Attraverso di lei si stava manifestando una “presenza” molto simpatica e cioè: Luigi Lucatelli, scrittore, giornalista, umorista, morto nel 1915. Lucatelli parlò subito… di me.

     

    Disse che sarei diventato uno scrittore, un umorista, e che lui sarebbe stato sempre al mio fianco. Io mi spaventai un po’. Mi ero da poco laureato in legge. Al mio primo intervento davanti al giudice conciliatore, smarrii la cambiale sulla quale verteva la causa. Segno premonitore?

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    Un mese dopo, da un palchetto del Teatro Lirico di Milano, Angelo Rizzoli mi vide recitare in una rivista goliardica. Perché mi chiamò subito alla fondazione del “Bertoldo” insieme con Mosca, Metz, Manzoni, Marotta, Molino? Mah! Da allora non ho mai smesso di scrivere, cercando di combinare le parole in maniera che facessero ridere.

     

     

    Spesso, quando in copisteria detto a un velocissimo dattilografo pagine e pagine di sceneggiatura, direttamente in bella copia, senza correzioni o ripensamenti, oppure quando mi scappano dalla bocca battute improvvise quasi prima che io possa averle pensate, ho il sospetto che qualcuno mi suggerisca ciò che dico.

    Sarà Luigi Lucatelli che mantiene la promessa fatta nel 1936 a una sua amica medium?

    Introduzione a Come ti erudisco il pupo di Luigi Lucatelli, Rizzoli 1977 

     

    Un umorista al fronte

    Fa troppo bene il “Marc’Aurelio” qui. Quando arriva, un portaordini corre di centro in centro per farlo leggere a tutti e le risate sconcertano il nemico.

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    Ieri ero seduto in terra. Un collega del genio mi ha domandato quanti chili pesassi. Gli ho risposto che ne pesavo ottantacinque, ma a furia di massaggi, di volontà e di scuole serali ero arrivato a sessantotto.

     

    Bene — mi ha risposto quello con calma — ti sei seduto su una mina che salta alla pressione di settanta chili.

    Mi sono alzato di scatto.

    — No, no adesso puoi anche rimanere — ha ribattuto il geniere — ti mancano due chili.

    — Già — e mi sono riseduto.

    Lettera dall’Egitto per il Marc’Aurelio, 20 giugno 1942 

     

    Scettico? No, miope

    La battuta, questa sfilza di parole meccaniche, costruite in modo da provocare comunque il riso, mi ha sempre ossessionato fin dall’inizio della mia lunga carriera di umorista (così lunga, pensi, che alcuni mi credono mio figlio). Eppure sono “nato alle lettere” con una “freddura” che fu pubblicata nel ’36 sul settimanale umoristico “Bertoldo”: «Io non credo all’amore a prima vista. — Scettico? — No: miope».

    Marcello Marchesi Marcello Marchesi

     

     

    Freddina, no? Da allora, sulle colonne dei giornali, sullo schermo, alla radio e in teatro, ovunque lavorassi, fui condannato sempre alla secca, ritmata, funzionale battuta. Era cominciata la mia triste carriera di scrittore tutto da ridere…

    Marchesi intervistato da Delfina Metz

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