Paolo Valentino per "www.corriere.it"
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È morto a Mosca, la città dove viveva da oltre mezzo secolo, pochi giorni dopo John Le Carrè. Come se un filo esistenziale legasse lo scrittore che meglio di tutti ha raccontato il mondo delle spie nella Guerra Fredda e la talpa che insieme ad altre lo ispirò. Aveva 98 anni George Blake, l’agente segreto britannico che per nove anni ingannò l’MI6, facendo il doppio gioco con l’Unione Sovietica e portando all’arresto di almeno 42 informatori dell’Est che lavoravano per i servizi occidentali.
La sua scomparsa è stata annunciata dall’SVR, l’intelligence esterna della Federazione russa erede del Kgb, che lo definisce «un agente leggendario» e ricorda «il sincero amore di Blake per il nostro Paese». Anche Vladimir Putin ha espresso le sue condoglianze, salutando Blake come un «brillante professionista» e uomo di «coraggio rimarchevole», che ha dato «un contributo inestimabile ad assicurare la parità strategica e preservare la pace».
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Con George Blake se ne va l’ultimo esponente di una celebre dinastia di spie britanniche, che lavorarono in segreto per il Cremlino e il cui tradimento fece tremare e umiliò il mondo dell’intelligence occidentale al culmine della Guerra Fredda. Ma a differenza dei famosi «Cambridge Five», i cinque ex studenti della prestigiosa università che passarono armi e bagagli al servizio del regime comunista di Mosca, Blake, anche lui studente a Cambridge, non fu mai parte del loro mondo né dell’establishment britannico. Con due di loro tuttavia, Kim Philby e Donald MacLean, anch’essi scappati a Mosca dopo essere stati scoperti, era diventato negli anni amico e frequentatore.
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Smascherato nel 1961, Blake era stato processato e condannato a 42 anni di carcere, uno per ogni agente tradito, secondo la vulgata del tempo. Ma nel 1966 fu protagonista di una clamorosa fuga dalla prigione londinese di Wormwood Scrubs, grazie all’aiuto di alcuni attivisti pacifisti, per un breve periodo suoi compagni di cella. Il piano di evasione, finanziato dal regista Tony Richardson, prevedeva anche un nascondiglio segreto, dove Blake rimase per alcuni mesi prima di riuscire a passare nascosto in una cassa di legno la Cortina di Ferro e fare il salto finale verso Mosca, lasciandosi dietro una moglie e tre figli. Da quel momento, parole sue del 2017, la Russia divenne la sua «seconda patria».
Blake era nato nel 1922 in Olanda, suo padre era un ebreo spagnolo che aveva combattuto nell’esercito inglese durante la Grande Guerra ed era diventato cittadino britannico. All’età di 18 anni, dopo l’invasione nazista della Polonia, si era unito alla resistenza olandese e in piena Seconda Guerra Mondiale era entrato nella riserva volontaria della Royal Navy, dove il suo background poliglotta lo aveva subito segnalato come candidato ideale per lavorare nell’intelligence: cominciò traducendo dall’olandese, la sua lingua madre, i messaggi dei resistenti per i comandi alleati.
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Finito il conflitto, dopo aver spiato i sovietici nella Germania dell’Est e aver imparato il russo a Cambridge, Blake venne inviato in Corea del Sud e venne anche fatto prigioniero dai nordcoreani quando esplose la guerra. Fu in Estremo Oriente che le sue precedenti simpatie per il comunismo presero forma concreta: «Di fronte ai bombardamenti americani sulla popolazione civile, decisi di cooperare volontariamente e senza compenso con l’intelligence sovietica».
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Da agente doppiogiochista, Blake passò a Mosca segreti importanti, non ultimo un piano occidentale per ascoltar le comunicazioni sovietiche scavando un tunnel sotto Berlino Est. Ma ha sempre negato che qualcuno degli uomini da lui traditi sia stato giustiziato: «Questo non mi fu contestato al processo a Londra e io lo avevo posto come condizione al momento del passaggio in Urss», disse una volta in una conferenza stampa.
C’era un ambiguo candore nella sorda ostinazione di questo maestro di spionaggio, sempre vestito di tweed con un farfallino al posto della cravatta, bon vivant che riceveva volentieri nel suo appartamento. Il comunismo per lui era quasi un’entità metafisica: «Chiunque creda nell’Aldilà mi faccia un esempio di come sarà la vita laggiù: non farete altro che descrivermi una società comunista», mi disse in un’intervista nel 1992 a Mosca, in occasione dell’uscita del libro nel quale raccontò il romanzo della sua vita.
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La sua analisi del crollo dell’Urss e del fallimento dell’esperimento sovietico non incolpava il modello, ma gli uomini cui ne era toccata in sorte la gestione: «Perché il comunismo possa avere successo occorre gente di altissima integrità morale, capace di mettere gli interessi generali al primo posto». La sua conclusione era adamantina e autoconsolatoria: «Noi che viviamo in questo scorcio del XX secolo non siamo abbastanza maturi per poter costruire una società comunista». Requiem per una spia che andò verso il freddo.
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