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    "QUANDO CIAMPI MI CHIAMÒ E MI CHIESE SE FOSSI INTERESSATO AL POSTO DI DG DEL TESORO, LA MIA PRIMA RISPOSTA FU CHE NON AVEVO LA PIÙ PALLIDA IDEA DI COSA FOSSE QUESTO LAVORO…" - INTERVISTA DEL 2014 A MARIO DRAGHI: "LA PRIMA QUESTIONE FU PROPRIO LA SACE. IO, ABITUATO ALLA BANCA MONDIALE DOVE I DOCUMENTI PER LE DECISIONI ARRIVAVANO MOLTO BEN COSTRUITI, PRECISI, ALMENO DUE SETTIMANE PRIMA DELLA RIUNIONE, ARRIVAI LÌ E MI TROVAI SUL TAVOLO 200 SCHEDE IN CUI NON SI VEDEVANO NEANCHE BENE I NOMI E LE CIFRE, PERCHÉ ERANO TUTTE SBIADITE. ALLA FINE DICO: "MA SCUSATE, QUESTO È COME SE UNO STA LÌ, APRE LA PORTA CON LA LINGUA DI FUORI E TU PASSI COL FRANCOBOLLO E L'ATTACCHI!". RISATA DI TUTTI. E IO: "VOI RIDETE, MA…"


     
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    Pubblichiamo un estratto dell’intervista a Mario Draghi realizzata da Federico Carli, presidente dell’Associazione di cultura economica Guido Carli, e contenuta nel volume La figura e l’opera di Guido Carli (Bollati Boringhieri, 2014)

     

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    Intervista di Federico Carli pubblicata da "la Verità"

     

    Presidente, qual è il suo ricordo dei rapporti fra Guido Carli e Federico Caffè?

    «Il primo ricordo che ho è legato alla mia tesi di laurea con Caffè. Mi laureai nel febbraio 1970 con una tesi sul Piano Werner. Il succo della tesi era questo: il Piano Werner è stato un fallimento perché le politiche economiche e le situazioni istituzionali dei vari Paesi dell'Unione sono ancora troppo diverse per poter avere dei cambi fissi; in sostanza è troppo presto per pensare a una moneta unica.

     

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    Anche Carli la pensava così. Io lo seppi proprio da Caffè, il quale, durante la seduta di laurea, fece riferimento all'idea del governatore della Banca d'Italia che "guarda caso, coincide con la sua": fu un semplice complimento alla fine della tesi, ma indicava molto chiaramente il rapporto che c'era fra i due. [...] Erano due conoscitori della liquidità internazionale e delle istituzioni finanziarie internazionali [...]».

     

    Torniamo al rapporto con Carli.

    «Carli, come Caffè, non era acriticamente liberista: nutrivano entrambi un sostanziale scetticismo a proposito del funzionamento di un mercato non sorvegliato, non accudito da norme adeguate. Lo scetticismo in Caffè diventò poi sempre più netto, fino alle invettive contro la Borsa. [] Ora il mio rapporto con Carli. Mio padre cominciò la sua carriera con Donato Menichella negli anni Venti, negli uffici di liquidazione della Banca italiana di sconto. Poi entrò in Banca d'Italia, dove fu ispettore di vigilanza per una decina d'anni; lasciò la Banca per l'Iri, dove ritrovò Menichella come direttore generale, e con lui lavorò negli anni Trenta, fino alla guerra.

     

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    In seguito gli offrirono un posto alla Banca nazionale del lavoro con Imbriani Longo, dove rimase fino alla morte. È chiaro che, in famiglia, dei governatori della Banca d'Italia si parlava. Ricordo che quando avevo solo cinque anni feci un viaggio in treno fino a Padova con Menichella [...]. Anche di Carli - a un certo punto venne fuori questo nome - si parlava molto; per una persona come mio padre, che aveva l'età circa di Menichella - era nato nel 1895, Menichella nel 1896 -, Carli era un po' troppo giovane, questa era l'idea che circolava.

     

    Poi, alla morte di mio padre, mia madre curò una raccolta di suoi scritti di tecnica bancaria, io avevo 15 o 16 anni; ci fu una bella prefazione di Alberto De Stefani, il vecchio ministro del fascismo, che mio padre, che era di Padova, conosceva perché De Stefani aveva studiato e insegnato a Padova, avevano fatto tutti e due la prima guerra mondiale, erano stati tutti e due decorati. Portai a casa di Carli una copia di questo libro: ci fu una stretta di mano e poco più, arrivederci e grazie.

     

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    Ci si rivide nel 1990 quando io tornai dalla Banca mondiale. Avevo fatto già quattro anni (più uno) a Washington. Uno dei governors della Banca mondiale per l'Italia è, de iure, il governatore della Banca d'Italia. Quindi all'inizio del 1989 chiamai il governatore Ciampi e gli dissi che avevo intenzione di andare via. Lui mi chiese: "Dove va?".

     

    Risposi: "Probabilmente vado a lavorare in una banca a Los Angeles, quindi, tempo cinque-sei mesi, vorrei chiudere qui alla Banca mondiale, sono rimasto anche troppo". Ciampi mi rispose: "Aspetti un momento". Mi richiamò dopo tre o quattro giorni e mi fece un'offerta per venire a lavorare come consulente in Banca d'Italia. Ne parlai con mia moglie, alla fine si decise e si venne qui. Potei così continuare per uno o due anni l'insegnamento all'università, che altrimenti avrei lasciato.

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    Dopo circa un anno di lavoro alla Banca, verso la fine del 1990, ci fu un dissidio fra Carli e il direttore generale del Tesoro, Mario Sarcinelli, alla fine del quale Sarcinelli diede le dimissioni. La questione era la Sace, della quale Sarcinelli era presidente, in quanto direttore del Tesoro. C'erano forti pressioni di alcuni esponenti del governo (il presidente era Giulio Andreotti) per far affluire dei finanziamenti a imprenditori per esportazioni. Questi finanziamenti potevano essere concessi dalle banche solo se assicurati dalla Sace. Questa, con Sarcinelli, continuava a opporsi.

     

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    Allora fu proposta una legge che poneva la decisione direttamente in capo al governo, sempre però previa valutazione della Sace. Le difficoltà continuarono e ci fu un voto contro Sarcinelli nel consiglio della società. Sarcinelli, non sentendosi sostenuto da Carli, si dimise. Fu allora che Ciampi mi chiamò e mi chiese se fossi interessato al posto di direttore generale del Tesoro. La mia prima risposta fu che non avevo la più pallida idea di cosa fosse questo lavoro. Esitai parecchio, circa un mese e mezzo. []

     

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    Alla fine di queste conversazioni, che tenemmo nell'ufficio che aveva in via Due Macelli, sia Carli che Ciampi mi dissero: «Si decida, per cortesia». Accettai l'offerta []. Per me erano i primi passi nell'amministrazione pubblica in una posizione di grande responsabilità, in un momento in cui il sistema si stava sgretolando rapidamente.

     

    E la prima questione fu proprio la Sace, di cui andavo ad assumere la presidenza. Io, abituato alla Banca mondiale dove i documenti per le decisioni arrivavano molto ben costruiti, precisi, almeno due settimane prima della riunione nella quale si doveva deliberare, arrivai lì e mi trovai sul tavolo alla prima riunione qualcosa come 200 schede in cui non si vedevano neanche bene i nomi e le cifre, perché erano tutte sbiadite. Ero molto a disagio.

     

    Alla fine dico: "... ma scusate, questo è come se uno sta lì, apre la porta con la lingua di fuori e tu passi col francobollo e l'attacchi!". Risata di tutti. E io: "Voi ridete, ma francamente non mi sento di approvare niente". Diventai direttore generale del Tesoro, e quindi presidente della Sace, il primo marzo 1991: la Sace non approvò niente fino al giugno-luglio di quell'anno».

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    Peggio che con Sarcinelli!

    «Molto peggio! Tanto che ci furono delle reazioni molto vocali, molto esplicite da parte di parecchia gente. Ebbi telefonate anche la notte []».

     

    E Carli la sostenne?

    «Certo, assolutamente sì. [...] Non mi fece alcuna obiezione. Un'altra cosa bloccai subito, sempre con il consenso di Carli. Il Tesoro aveva un piano di emissioni obbligazionarie in valuta estera abbastanza strutturato [...]; io prevedevo, dopo aver visto le vicende di tanti Paesi in Banca mondiale, che qualcosa sarebbe successo al cambio della lira. Perciò l'altra cosa che bloccai fu il programma di emissioni di titoli pubblici in valuta estera. Lo bloccai completamente fino alla fine del 1992, fino a dopo la svalutazione.

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    Questa fu una decisione che causò notevoli reazioni da parte della comunità finanziaria internazionale; al Tesoro c'era un viavai di banche estere che volevano partecipare ai collocamenti. Una questione sulla quale Carli molto si impegnò in prima persona fu il Trattato di Maastricht. []

     

    Durante il mio primo anno al Tesoro, per lo meno due giorni a settimana ero a Bruxelles per discutere di questo. Devo dire che non trovai il terreno vergine, perché c'era stato il Rapporto Delors e c'era già un ampio coinvolgimento sia della Banca d'Italia sia del ministero degli Esteri. [] Carli, e questo è stato dimostrato tante volte, sperava molto nell'azione del vincolo esterno. Lui riteneva che, una volta che ci fossimo legati, questo avrebbe portato un cambio di politica economica».

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    Andreotti le concedeva incontri?

    «Andreotti me li concedeva senza batter ciglio, perché c'era quest'entente con Carli, il quale teneva molto che io ogni volta andassi, informassi il presidente del Consiglio, gli dicessi anche che occorreva muoversi su tanti fronti, soprattutto sul fronte previdenziale, pensionistico, della spesa corrente. La situazione di partenza era spaventosa. Noi stavamo viaggiando verso un rapporto deficit/Pil dell'11 per cento.

     

    Tenete presente che il prestigio di Carli nell'Ecofin era molto alto. Carli era ricordato per il ruolo che aveva avuto negli anni Settanta, negli anni Sessanta, e prima ancora come presidente dell'Unione europea dei pagamenti []. Il suo prestigio era tale che veniva considerato sempre più come l'ultima spiaggia per l'Italia [...].

     

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    Quel governo veniva visto dal resto d'Europa come animato da due figure centrali: Carli da un lato e Andreotti dall'altro, quale rappresentante massimo della Dc europea, al livello di Helmut Kohl. [...] Torno alla domanda sul vincolo: se lui teneva così tanto a che io parlassi con il presidente del Consiglio, vuol dire che veramente pensava che il vincolo esterno potesse essere efficace e aiutare il Paese e lo stesso presidente del Consiglio, il quale era molto convinto dell'importanza del processo europeo».

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