Testo di Maurizio Molinari per la Repubblica
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Non ero mai andato in Curva Nord. In genere, andavo in quella opposta. Ogni domenica.
Andare in Curva Nord poi, durante un derby, era qualcosa che mai e poi mai avrei preso in considerazione. Ma Guido e Alberto erano due dei miei amici più cari. Fratelli, veri gentlemen e soprattutto grandi giocatori di pallone, compagni di squadra nelle partite di ogni domenica mattina ai campi polo di Villa Pamphili.
la notizia dell'uccisione di vincenzo paparelli
Quella volta fu Guido a dirmi: «Vieni prima a casa nostra, poi andiamo assieme allo stadio». Loro laziali, da sempre, io giallorosso, da sempre, ma amici per la pelle, veri, inseparabili. In campo e fuori.
«Certo, Guido, accetto volentieri, anche perché abitate a due passi dallo stadio».
Così andai prima a casa Sessa e poi, andammo assieme, a piedi, in Curva Nord. Era il 28 ottobre 1979.
Una domenica splendente, cielo terso, campo perfetto. Ero incuriosito ed affascinato dalla possibilità di vedere un derby immerso nella tifoseria biancoazzurra. Eravamo seduti al centro della curva, sulle panchine di legno verde.
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Con l’arrivo dei tifosi, lo stadio si riempie. Parlo fitto fitto con Guido, abbiamo in mano due panini al formaggio, preparati dalla madre Wanda.
Quando dalla Curva Sud, vediamo arrivare un piccolo razzo che si avvita, con una punta di fuoco, ed una scia nera molto visibile. E sempre più vicino. Fino a terminare la corsa davanti a noi, cade in terra solo poche fila sotto a noi.
Si alza una colonna di fumo nero, intenso, fitto. E poi iniziano le grida: «Hanno colpito un uomo, allarme, aiuto!». È il parapiglia. Tutti corrono, verso l’uscita. Arrivano i soccorsi e poco dopo sapremo che Vincenzo Paparelli, trentatre anni, padre di due figli, non ce l’ha fatta. Ed è morto.
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È stato ucciso. Sotto i nostri occhi. Nessuno parlava più, uscimmo dallo stadio in silenzio, con ancora il panino in mano, e tornammo a piedi a casa Sessa, increduli per quanto era avvenuto come per la decisione che era stata presa di giocare il derby.
Per un tempo che ora mi sembra interminabile, nessuno di noi tre parlò più. Dentro di me pensavo che essere stato in Curva Nord in quel giorno conteneva una lezione spietata: avevo visto cosa il tifo più esasperato poteva fare. Anche quello che veniva dalla mia parte.
L’amicizia con Guido e Alberto divenne ancor più granitica. Ed io avevo imparato a sentirmi a casa anche nella Curva Nord. Da quel giorno per me lo Stadio Olimpico era diventato più grande.
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Avevo compreso l’importanza di guardare il mondo con gli occhi degli altri.
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