Teresa Ciabatti per “la Lettura - Corriere della Sera”
Dimmi chi sei, gli urlava il padre. A seguire insegnanti, adulti, tutti a chiedersi cosa fosse quella creatura strana.
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Passano gli anni, e lui risponde. Con la musica, con le parole come quelle del secondo libro appena uscito per Rizzoli: 16 marzo . Romanzo/poema autobiografico dove l' autobiografia, anche quando non è personale, è comunque reale perché di una generazione. Attraverso le sue opere Achille Lauro risponde.
Incendio, bufera, farfalla dalle ali nere, gioventù sregolata, James Dean, Marilyn Monroe, diva. Io sono una diva, scrive.
Tanto che la canzone Rolls Royce è un omaggio a Marilyn - «se devo piangere preferisco farlo sul sedile di una Rolls Royce piuttosto che sul vagone di un metrò» - e non l' inno alla droga che alcuni hanno pensato. Del resto il nuovo arriva e disorienta, spaventa, travolge, respinge, attrae, svela.
Per coloro che credevano di imprigionare/incasellare questo artista, la sorpresa: è lui a liberare noi. Mentre a noi non resta che domandarci come si diventa Achille Lauro.
Iniziamo dall' infanzia.
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«Non amo raccontare dell' infanzia. Lo faccio in breve».
In breve?
«Parlare coi pupazzi, affezionarsi a loro».
Che bambino è stato?
«Molto solo. Scuola, cartoni animati».
Quali?
« Yattaman , Ranma ½ ». Manga che prevedono la trasformazione dei protagonisti.
« Ranma poteva essere sia maschio, sia femmina. I tre di Yattaman si trasformano in oche, ma possono diventare tutto».
Come Achille Lauro: maschio, femmina, San Francesco, regina, David Bowie.
«Non David Bowie: Ziggy Stardust, uno dei suoi alter ego, quello che esprimeva il rifiuto degli stereotipi sessuali. Portare Bowie sul palco di Sanremo sarebbe stato carnevalesco. Ziggy Stardust invece ha significato portare un ideale».
L' ideale di un' identità libera, da inventare?
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«Dentro ognuno di noi ci sono cento personalità che prendono vita anche estetica».
Ad Achille Lauro cambiano persino gli occhi - azzurri, viola, neri, gialli.
Colore reale?
«Verdi, e anche il resto».
Lei dice che per un bambino/adolescente la stanza è il mondo intero. Mi descrive la sua?
«Un letto, un armadio, un comodino in cui nascondevo quel che scrivevo».
Motivo del nascondere?
«Pudore, e vergogna. La vergogna è un motore creativo».
Scrive per vergogna?
«Sono introverso, e già a dodici anni avevo trovato questo modo di auto-analizzarmi. Rimanevo giornate, notti, chino sui fogli, come altri davanti ai videogiochi. Mia madre entrava in camera la mattina e mi trovava dove mi aveva lasciato la sera. Scrivevo, scrivevo. Era il mio mondo parallelo. Se arrivavano gli amici, chiedevo di aspettarmi di là, in salone. Dovevo finire di scrivere».
Durata dell' attesa?
«A volte un' ora. Oggi me lo rinfacciano: "Tu sei quello che ci faceva aspettare"».
A quattordici anni va via di casa con suo fratello maggiore, e si trasferisce a Roma in una specie di comune.
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«In mezzo a creativi, c' era chi suonava, chi disegnava. Gente piena di idee, ma anche teste calde».
Che opinione aveva di loro?
«Dicevo: "Quando sarete qualcuno, io starò con voi". Li vedevo vincenti. Malgrado riuscissero a concludere poco, per me erano la voce di qualcuno. Il vero successo è essere una voce».
Lei parla di «ragazzi madre», titolo del suo terzo album.
«La nostra generazione, quella di ragazzi che si crescono l' un l' altro. Una condizione che non riguarda solo le periferie. Crescersi da soli è uno stato d' animo. Siamo in un' epoca di genitori che lavorano molto, di base assenti».
Quattordicenne in mezzo a ventenni, in una città nuova. Momenti in cui ha avuto paura?
«Quando stavo per diventare nulla. Vedevo persone intorno a me andare avanti, e io rimanere fermo. A 23 anni ho capito di non avere niente in mano, quindi ho deciso di non perdere più tempo».
Stivaletti lucidi? (Nel libro racconta di lei che compra un paio di stivaletti costosi, ennesima trasformazione).
«Capisco che per colpire ho bisogno di tre cose: cambiare modo di fare, modo di parlare, e un paio di scarpe luccicanti. Gli stivaletti, sì».
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Scrive: «Benvenuti dove l' abito fa il monaco».
«Perché i venditori vanno in giro agghindati? L' abito è importante per trasmettere fiducia agli sconosciuti. Camicia nera, pantalone nero, la mia divisa di allora. Semplice, ma impreziosita da accessori eleganti: scarpe e cintura in pelle. Era stato quello il mio investimento. Da lì ho iniziato a fare molti incontri di lavoro. Mi spostavo sempre in taxi».
Chi non voleva essere?
«Lo capivo attraverso gli amici allo sbando. Certe situazioni mi facevano domandare: vuoi diventare questo?».
Risposta?
«No».
Quanto pesava l' esempio familiare?
«Vengo da una famiglia perbene, di lavoratori. Ho visto mio padre, magistrato, lavorare tantissimo, sacrificarsi, e non riuscire a entrare in certe caste, motivo poi di frustrazione».
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Suo sentimento di figlio?
«C' è una frase di Tenco: "Un giorno ti diranno che tuo padre aveva per la testa grandi idee...". Io mi sentivo così, mi dispiaceva vedere che lui non potesse realizzare quello che desiderava».
Sua madre intanto?
«Abbiamo attraversato un periodo difficile a livello economico. A quel punto lei ha cominciato a lavorare, lavori saltuari, assistere i malati per esempio. O fare braccialetti che poi andava a vendere».
E?
«Io ci stavo male, non volevo vederla insoddisfatta».
Primo regalo alla mamma con i soldi guadagnati?
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«Dico l' ultimo: un gran cappotto da signora. Mi ero stufato di vederla dimessa».
Ad Aldo Cazzullo lei ha raccontato di aver riscattato i gioielli di sua nonna dal banco dei pegni.
«Per ridarli a mia madre. Non potevo pensare che per sopperire a una mancanza di soldi lei si fosse privata dei ricordi. Oggetti di scarso valore economico, ma di enorme valore sentimentale».
Nel libro cita Don DeLillo: «Tutti quanti sono a dieci secondi dalla ricchezza». Che ha fatto Achille Lauro a dieci secondi?
«Me ne sono andato».
Ovvero?
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«A dieci secondi dalla felicità io scappo».
Il tema di «16 marzo», singolo e libro.
«Essere vicinissimi a quello che hai sognato, e lasciarlo dov' è, intatto».
Ha a che vedere con il senso di sconfitta di cui lei spesso parla?
«Sempre sentirsi perdenti, avere l' idea di aver fallito: allora crei qualcosa di nuovo. Nella musica, per fortuna, ti ritrovi lì a ogni singolo. Ogni singolo è una riconquista, non un ristorante ben avviato».
Il fallimento per lei?
«Una condizione perenne, motivante».
Timore di sentirsi arrivato?
«Nella musica è difficile. Se io finisco nella zona confort capisco che c' è un problema, e viro. Il mio obiettivo è far dire ogni volta: "Adesso questo che ha fatto?"».
Le critiche?
«Quando vedo tante critiche quanti complimenti capisco che quel che ho realizzato funziona. Se ci sono solo complimenti, non funziona».
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A fine romanzo c' è una specie di Spoon River del fallimento. I momenti in cui tutti, persino i migliori, non sono stati riconosciuti.
«Il disegnatore di fumetti che viene licenziato per mancanza di idee e immaginazione, ed era Walt Disney. Il cantante che si sente dire "non sfonderai mai. Dovresti tornare a fare l' autista di camion", Elvis Presley. O anche il ragazzino che non viene accettato nella squadra di pallacanestro del liceo perché ritenuto non adatto, Michael Jordan».
Conclusione?
«Ci vuole costanza, ma anche fortuna.
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Vedi van Gogh, Schubert, e tanti altri, riconosciuti solo dopo la morte».
Nel libro scrive: «Le volte che ho pensato di morire», precisamente?
«I burroni d' amore, i momenti in cui sei nessuno. Notti in cui ti addormenti con la paura di non risvegliarti».
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A 29 anni i suoi morti?
«Vari amici».
E?
«Se non è una morte legata al ciclo della vita, alla vecchiaia, se a morire sono i giovani, ti fai delle domande molto grandi su chi vuoi diventare».
Chi è diventato lei?
«Dentro di me c' è una moltitudine, inclusi gli amici che ho perso».
Cos' è la giovinezza?
«Rispondo tra vent' anni».
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