Giordano Stabile per La Stampa.it
isis
Migliaia di giovani occidentali, nati e cresciuti a Londra, Bruxelles, Parigi o Berlino, sono arrivati in Siria e Iraq a combattere sotto le insegne nere dell’Isis. E si vede. Soprattutto su Internet. Lo Stato Islamico ha messo su un macchina propagandistica dal linguaggio moderno. Ha un centro stampa, sfrutta i social, specie Twitter, monta video sofisticati, con post-produzione, come purtroppo abbiamo visto nel caso di James Foley. Centinaia di followers postano in continuazione aggiornamenti foto e video. In arabo, inglese e urdu, perché si rivolgono anche alle platee in Europa, e nei Paesi musulmani, come Pakistan e Indonesia, dove la lingua di Maometto è poco diffusa.
IRAQ - JIHADISTI DELL' ISIS
La novità, rispetto alla propaganda grezza di Al Qaeda o dei taleban, è la qualità e la correttezza delle informazioni. Anche se le sconfitte, e tantopiù le nefandezze, vengono omesse, le notizie dai vari fronti sono in genere accurate e spesso anticipano i media tradizionali. La caduta della base vicino a Raqqa era stata data tre giorni fa, con un fiume di immagini di blindati distrutti e bandiere nere sventolanti.
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L’altra forza dell’Islamic State media è la coerenza, goebbelsiana, con cui martella su alcuni punti. Il rispetto dei precetti islamici è girato in chiave positivo: moltissime foto e filmati testimoniano il rispetto della carità islamica, la zakat, obbligatoria verso i poveri: e allora camion di sacchi di frumento che arrivano nei villaggi, donazioni in denaro distribuite alle famiglie bisognose. Le esecuzioni sono giustificate come atti di giustizia nei confronti di rapinatori, stupratori o «aguzzini» di Assad o Al Maliki.
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Anche i video terrorizzanti, le decapitazioni rituali, le immagini folli (ultima quella di un bambino che decapita bambole, «per esercitarsi») vengono usati con una precisa strategia, già delineata dal salafita Abu Bakr Naji nel saggio «Idarat al Tawahhush. La gestione della brutalità» (2006): polarizzare la popolazione locale per attrarre i sunniti, cacciare gli altri, fondare un califfato puro, «facendo capire che chi entra in questa battaglia ha poche probabilità di uscirne vivo».
James Wright Foley
Un spazio enorme viene dedicato al reclutamento, ai giuramenti di fedeltà, «bayah». Oltre alle sfilate di giovani che arrivano da tutto il mondo, c’è una forte richiesta di medici, ingegneri e informatici. Sulla futura espansione del Califfato, invece, molta prudenza: le cartine mostrano un’area nera che copre Siria, Iraq, Libano, Giordania, Israele, ma non si spinge, tanto per dire, all’Arabia Saudita.
YOUNES ABAAOUD TREDICENNE BELGA RECLUTATO DA ISIS
Altro fatto curioso, lo Stato islamico ha abbracciato la rivoluzione digitale nei media, un po’ per necessità (non ha mezzi per stampare giornali in larga scala) un po’ per il pubblico giovane. Ha una rivista online, di buona fattura, «Daqib» (nome di una mitica battaglia fra il Bene e il Male) e una sia digitale che cartacea, «Islamic State Report», che si occupa di «smascherare le eresie» contro l’Isis.
Daqib è invece una guida al Califfato, con le linee da seguire in ogni aspetto della vita quotidiana (dove si dice che il Califfato è il primo Stato «smoke free», dove è proibito fumare ovunque), piena di immagini suggestive che danno un’idea romantica dei combattenti che vanno a morire per conquistarsi il Janna, il paradiso. Ma sui social, oltre al tipico linguaggio digitale («spannare», «rituittare») si trovano anche consigli di moda: l’ultimo, sì alla barba, no ai baffi, l’ultima tendenza lanciata dai combattenti al fronte.
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