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    COME FAR DIMENTICARE I FLOP DEGLI ULTIMI ANNI? RICOMPONENDO LA "VECCHIA GUARDIA" - JOHN FRUSCIANTE È TORNATO A SUONARE CON I RED HOT CHILLI PEPPERS DOPO 16 ANNI IN OCCASIONE DI "UNLIMITED LOVE", IL DODICESIMO ALBUM DEL GRUPPO - PAOLO GIORDANO: "NON IMPORTA SCOPRIRE SE QUESTO SIA L'ALBUM MIGLIORE DEI RED HOT CHILI PEPPERS, IL PEGGIORE O IL CHISSÀ COSA. CONTA CHE UNA DELLE ULTIME GRANDI (HARD) ROCK BAND NATE NEGLI ANNI OTTANTA SIA ANCORA A PIENI GIRI SENZA TRADIRE LA PROPRIA RAGIONE SOCIALE" - INSIEME A FRUSCIANTE, È TORNATO ANCHE IL PRODUTTORE RICK RUBIN, CHE GLI STESSI "PEPPERS" PARAGONANO A QUELLO CHE È STATO GEORGE MARTIN PER I BEATLES… - VIDEO


     
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    Paolo Giordano per “il Giornale”

     

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    Ma non importa neppure saperlo. Non importa scoprire se questo Unlimited love sia l'album migliore dei Red Hot Chili Peppers, il peggiore o il chissà cosa. Conta che una delle ultime grandi (hard) rock band nate negli anni Ottanta sia ancora a pieni giri senza tradire la propria ragione sociale, anzi.

     

    Forse per questo, anche se ormai in via di estinzione, i negozi di dischi di mezzo mondo (Italia compresa) ieri notte hanno tenuto aperto per poterlo vendere appena possibile. Un rituale che ricorda quando il disco era un evento decisivo e non semplicemente una fase della promozione di un artista o sedicente tale.

     

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    Dunque, prima la cronaca. Unlimited love è il dodicesimo disco di una storia iniziata quasi 40 anni fa (1983) a Los Angeles e attraversata, come da rituale, con eccessi, morti (il chitarrista Hillel Slovak, overdose nel 1988), successi globali, ripensamenti. Insieme con Metallica e Guns N'Roses, nel 1991 hanno festeggiato la nuova fase del cosiddetto hard rock con un disco favoloso da 13 milioni di copie vendute (Blood Sugar Sex Magik), capace di mettere d'accordo i fan più intransigenti con le playlist dei grandi network, praticamente un miracolo.

     

    E poi in questo disco tornano John Frusciante alla chitarra (assente dal 2006, è il Jack del romanzo di Brizzi...) e Rick Rubin, sostanzialmente una leggenda della produzione che, dai Run Dmc a Johnny Cash, da Shakira a Jovanotti, ha saputo creare un marchio di fabbrica sonora totalmente riconoscibile: essenzialità e potenza. «Il mio ritorno era nell'aria» ha detto Frusciante, uno dei musicisti più timidi in circolazione. «Mi sono commosso alla prima canzone che mi hanno fatto ascoltare», ha confermato il barbutissimo Rick Rubin, non proprio un pivello inesperto.

     

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    In fondo con questa band di «scatenati senza ritegno» (si fecero fotografare nudi con il calzino appeso proprio là) lui va decisamente a nozze. Se oggi non esistono più confini tra i generi musicali e tutti suonano tutto, una parte del merito è anche dei Red Hot Chili Peppers di Anthony Kiedis (ora abbastanza inguardabile con baffi alla Freddie Mercury senza essere Freddie Mercury) e Flea, bassista funambolico che suona molto meglio di qualsiasi beat in vendita sul web. Entrambi quest' anno diventano sessantenni ma, come conferma Kiedis all'inglese Nme, «non me ne frega un cazzo dei sessanta».

    Più chiaro di così.

     

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    Sono stati loro (insieme con altri come Infectious Grooves o Suicidal Tendencies) a togliere il passaporto ai generi musicali, ad aprire le frontiere mescolando rock duro con funk e rap, assoli di chitarra e scratch arrivando fino ai confini del jazz. E anche in questo Unlimited +I love il loro suono è la I pi, somma dei singoli 'We strumenti e non della programma- zione di un com- puter. Big wow.

     

    Dopotutto i ite Red Hot Chili Peppers, che si preparano a riempire gli stadi americani per la prima volta tutti da soli, sono rimasti tra gli ultimi dei Mohicani a suonare musica suonata per davvero e a fare quelle cose che oggi, per carità, sono considerate così demodè. Ad esempio sentire il frusciare dei polpastrelli sulle corde di basso di Aquatic mouth dance che per il New Musical Express è un «jazzy bop» e finisce con un fraseggio di tromba che uno si chiede come hanno fatto a pensarci.

     

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    Idem per White braids and pillow chair, che sa molto di Los Angeles zona Venice ed è sostanzialmente sganciato dal tempo perché è uscito oggi ma sarebbe andato bene pure dieci o trenta o cinquanta anni fa. In poche parole, non è un caso se i Red Hot Chili Peppers restano così fedeli alla linea da poter dire oggi, dopo quarant' anni di carriera, che «ci sentiamo freschi, come se fosse un nuovo inizio».

     

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    Di certo non hanno la stessa candida inesperienza di quando suonavano nei club di Los Angeles mentre Ronald Reagan abitava alla Casa Bianca. Ma, evviva, hanno ancora voglia di stupire e di confermare che il rock non è ancora morto e, grazie ad assoli di chitarra rugginosi e potenti come in Black summer o Let' em cry, si fa pure una bella, vivifica boccata d'ossigeno.

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