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    IL SIGNORE SI VEDE A TAVOLA E A TAVOLINO - MARINO NIOLA E L’EPICA DEL TAVOLINO ALL’APERTO: “È UNA VERA CATEGORIA DELLO SPIRITO NAZIONALE. PUNTELLO DI UNA SOCIALITÀ INCONTENIBILE, TRABOCCANTE, TEATRALE. È SEMPRE INTORNO A UN TAVOLINO CHE NEL BELPAESE D'ANTAN SI CREAVA QUELLA CORRENTE DI ENERGIA COLLETTIVA CHE CONSENTIVA AL MEDIUM DI TURNO DI ENTRARE IN CONTATTO CON GLI SPIRITI DEI TRAPASSATI..."


     
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    Marino Niola per “la Repubblica”

     

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    L'Italia si trasferisce precipitosamente nel dehors, riempiendo strade e piazze di sedie e tavolini. C'è qualcosa di nuovo, anzi d'antico in tutta quest'ammuina. Di nuovo c'è l'impatto della pandemia, che costringe tutti a spostare all'aperto baracca e burattini.

     

    Di antico c'è il tavolino che, da salotto, da bar o da ristorante che sia, è una vera categoria dello spirito nazionale. Il tradizionale puntello di una socialità incontenibile, traboccante, teatrale. Traballante come le gambe di certi tavolini da caffè dello sport. In realtà il tavolino è un oggetto simbolo del nostro modo di entrare in relazione con gli altri.

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    È un'interfaccia tra individualismi, una distanza che unisce pur lasciando ciascuno nella propria posizione. Ma è anche un trait d'union con altre dimensioni, pubbliche e private, reali e immaginarie. Spesso tra il sognatore e i suoi sogni c'è di mezzo un tavolino, dove le fantasie vengono evocate come attori sulla scena.

     

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    Ed è sempre intorno a un tavolino che nel Belpaese d'antan si creava quella corrente di energia collettiva che consentiva al medium di turno di entrare in contatto con gli spiriti dei trapassati. La stessa corrente di energia collettiva che ha fatto dei minuscoli tavoli dei caffè degli acceleratori di trasformazioni sociali. Che hanno contribuito a liberare le donne dall'isolamento domestico o dalla tutela di mariti, padri e fratelli. Zone franche per consumi senza accompagnatori.

     

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    Dove spesso il consumo è addirittura un pretesto. Come si è visto ieri, quando è scattato il giallo ed è apparso subito chiaro che il vero bisogno non era il cappuccino e il cornetto, il toast e lo spritz, ma quello di fare comunella. Un po' come negli anni Cinquanta, quando i "poveri ma belli" restavano seduti per ore a chiacchierare ordinando una minerale in quattro.

     

    Come Cerutti Gino e i suoi amici "al Bar del Giambellino" della canzone di Giorgio Gaber. Ma forse il vero emblema di questa antropologia da tavolino è il Carosello di Ernesto Calindri, che sorseggia un Cynar "contro il logorio della vita moderna" mentre è seduto a un tavolino in mezzo a un pandemonio di traffico.

     

    In quella immagine è racchiusa tutta la filosofia adattogena del vivere all'italiana. Sempre al confine tra il provvisorio e il definitivo, tra interno ed esterno, tra spazio pubblico e spazio privato. E dove il tavolino non è un microtavolo, ma un microcosmo a quattro gambe.

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