Estratto dell’articolo di Paolo Russo per “la Stampa”
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L'Aifa riduce la cerchia di chi ha diritto alla vitamina D a carico dello Stato e i medici che più di altri la prescrivono insorgono. «E' una scelta basata su una logica economica, ma miope dal punto di vista clinico e della prevenzione», tuona Annamaria Colao, presidente della Società italiana di endocrinologia.
Anche se più di un suo collega ha collaborato a redigere la nuova "nota 96" dell'Aifa, che riduce da 20 a 12 nanogrammi per millilitro di sangue la quantità di vitamina D nell'organismo al di sotto della quale è consentito assumerla gratis.
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Una mossa che dovrebbe portare dimezzare a 100 milioni la spesa per un farmaco del quale gli italiani sono di gran lunga i primi consumatori in Europa. Basti pensare che da noi la vitamina D, che si assorbe prevalentemente esponendosi al sole, è il secondo medicinale più prescritto, in quasi otto milioni ne consumano una dose al giorno, mentre in Europa è solo al 23esimo posto. Un boom che dal 2006 al 2016 ha visto balzare la spesa da 24 a 208 milioni, per poi flettere leggermente dopo la prima nota limitativa emanata dall'Aifa nel 2019.
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Questa seconda stretta secondo gli esperti dell'Agenzia muove però non da ragioni economiche ma da due grandi studi randomizzati, uno statunitense e l'altro europeo, giunti entrambi alle stesse conclusioni. Ossia che «la supplementazione con dosi di vitamina D più che adeguate e per diversi anni non riduce il rischio di frattura nella popolazione sana».
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A meno che non si sia esposti a dei fattori di rischio, elencati dalla stessa Aifa e che riguardano: ricoverati in Rsa o comunque allettati, e dunque impossibilitati a prendere il sole, affetti da osteoporosi, osteopatie e iperparatiroidismo, oppure pazienti in terapia con farmaci, come i cortisonici o gli antiepilettici, che ne impediscono il buon assorbimento. […]
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