Candida Morvillo per il “Corriere della Sera”
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Due settimane fa, in quest' appartamento zeppo di libri, il seggiolone della nipotina in salotto, con Nando Dalla Chiesa, viveva ancora Emilia. Oggi, c'è lui da solo, per la prima volta dopo 50 anni d'amore, polo e giacca, composto come sempre, se non fosse per gli occhi che non sono più quelli. Quelli saettanti dei mille comizi per la legalità, delle invettive contro le mafie.
Non c'è parola per descriverli, finché lui non dice: «Quando mi hanno detto che Emilia doveva usare il deambulatore, mi si sono inceneriti gli occhi». E poi, invece, peggio ancora, lei aveva sussurrato «finirò a letto» e così è stato: «Aveva capito tutto prima di noi, anche che sarebbe morta».
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Aveva solo 68 anni. Di lei, in questa stanza, restano le foto in bianco e nero di una ragazza bellissima dal sorriso contagioso e, appesa sul letto dove se n'è andata, una foto enorme di loro due, ventenni, che si baciano. Lui ci ha scritto su, con lo spray, «Emù sei la prima»: «Le dicevo così, perché "sei unica" non ha valore: se ci sei solo tu, che confronto è?».
Il 20 maggio, su Facebook, il professore sempre sobrio, asciutto, pacato, che dall'assassinio del padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ha consacrato la vita all'antimafia, ha scritto: «La ragazza di Vicolo Pandolfini, il luogo in cui ci giuravamo amore eterno a Palermo, se ne è andata. Provate qualche volta a riconoscerla in una stella. Potrebbe dirvi "sono io", era uno dei suoi giochi preferiti».
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Perché «la ragazza di Vicolo Pandolfini»?
«Domenica scorsa, mi ha chiamato don Luigi Ciotti e mi ha detto: sono nel Vicolo Pandolfini, ma è questo stretto? E io: certo, per questo ci andavamo, era piccolo, non passava nessuno Lì potevamo appartarci in una 600 bianca a parlare di futuro e di amore per ore».
Come l'aveva conosciuta?
«Era il 1970, era compagna di banco di mia sorella Simona. Io ero già a Milano per l'università. Un'estate, tornai e, in discoteca, vidi una biondina che ballava benissimo, allegra, leggiadra.
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Pensai: ma guarda che bella. Simona mi disse: è Emilia Cestelli. La mattina alle sette, ero già in cucina, dissi a mia madre: mi sono innamorato. Chiese chi era, glielo dissi e rispose: hai fatto bene. Lei e papà la conoscevano, l'hanno considerata sempre la quarta figlia».
Sua sorella Rita racconta che, due anni fa, vi sorprese al mare, al tramonto, abbracciati, e che avete vissuto sempre abbracciati.
«Era molto di più del contatto fisico: abbiamo avuto un destino unico, così forte, e lei c'è stata in modo meraviglioso, aiutandomi a fare cose difficili. Lo vede questo anello? Lo portava mio padre quando fu ucciso. Lo lavò lei, per evitarmi di sentire il sangue di papà sciogliersi fra le mani».
In quel settembre 1982, Emilia era anche incinta.
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«Sono cose che legano tantissimo. È stata in questo mio cammino duro senza mai tirarsi indietro. Era incinta di Dora al funerale di papà e di Carlo a quello di mamma, morta d'infarto. Non mi ha mai detto: che vita mi costringi a fare? Da questo balcone, quante volte, si affacciava per vedere se sotto era libero».
«Libero» da pericoli?
«Durante il terrorismo, i compagni di movimento facevano le ronde sotto casa, quando entravo o uscivo. Da prof, non usavo mai lo stesso ingresso dell'università. Qualcuno andò anche a fotografare nostro figlio all'asilo.
Tuttora, ci sono posti in cui mi dicono: non venire, qui non è aria per te. Sono abituato alla semiclandestinità. Per telefono con papà, non dicevamo mai quando ci saremmo visti. Avevamo un codice. Lui chiamava e diceva: "mucosa". Mi manca Emilia, l'unica che sa. "Mucosa" significava: preparate da bere, sto arrivando.
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Mi manca questo: mezzo secolo condiviso di cose che non dicono niente a nessuno, ma che a noi direbbero tutto».
Che cos' era il gioco delle stelle e del «sono io»?
«Quando Emù arrivava, o qualcuno parlava di lei, aveva questo modo di agitare la mano, ridendo, e dire "sono io, sono io". L'altra sera, i miei studenti mi hanno portato a un concerto. Suonava uno di loro, caro a Emù, Alessandro, che ha aperto la serata dicendo che la dedicava a una donna speciale, a Emilia. E io ho pensato: se lei fosse qui, agiterebbe la mano e sorridendo direbbe "sono io, sono io"».
Quando era candidato sindaco di Milano, Emilia spiegò che aveva scelto di non lavorare per non perdersi nessuna delle cose che le stavano a cuore.
«Rinunciò al suo lavoro quando iniziò il maxi processo a Cosa Nostra nell'86. Quando papà morì, gli promisi giustizia e capii subito che giustizia significava far crescere una cultura dell'antimafia.
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Andavo a parlarne anche in due città al giorno. Ero sempre via. Emilia non è stata un passo indietro, ha condiviso tutto e senza mai perdere la sua allegria. Sapeva essere spiritosa anche quando lottava in prima persona. Con alcune donne dei Girotondi, andò a un processo a Cesare Previti con la maschera della Banda Bassotti».
Come arriva la malattia?
«Un anno e qualche mese fa, aveva sintomi strani: era un tumore al colon. L'intervento è riuscito, ma il tumore è tornato, al fegato, alle ossa. A ottobre, il dolore era tale che per spostarla l'hanno dovuta legare in verticale a una barella. Ha patito sofferenze atroci. Da allora sino alla fine, sono sempre stato con lei».
Il momento più duro?
«Al Niguarda, quando ci è stato detto che non c'era più niente da fare. Eravamo io e i figli, i nostri Gracchi che Cornelia ci invidierebbe. Abbiamo chiesto la terapia del dolore. A Emù, nell'ultimo anno, col dolore, venivano fuori le frasi d'amore di Vicolo Pandolfini, quelle dei vent' anni, nella 600.
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Quando poi è stata sedata, mi sono messo accanto a lei e ho continuato ad accarezzarle i capelli e a ripeterle sottovoce quelle frasi. Lì, ho scoperto l'essenza del matrimonio: condividere buona e cattiva sorte. L'ho sentito profondamente mentre, per quattro giorni, sono stato a sussurrare. E, nel dolore, anche a me fiorivano parole di cinquant' anni prima».
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