Antonio Riello per Dagospia
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Il 28 Ottobre la Tate Modern di Londra sospende, a tempo indeterminato, uno dei suoi più brillanti curatori, Mark Godfrey (fu, tra l'altro, nel 2017 uno degli organizzatori della mostra "Soul of a Nation: Art in the Age of Black Power"). Il fatto, abbastanza inusuale, avviene poco dopo che lo stesso Godfrey aveva postato su Instagram un critico commento personale sulla decisione presa dalla direttrice Frances Morris di posticipare la già-prevista-da-tempo mostra “Philip Guston Now” al 2024 (decisione in un secondo tempo goffamente corretta verso un "probabile 2022").
Ma cosa sta succedendo nei musei? Era dal 1989 che nel mondo dell'Arte non si parlava con tanto clamore di "censura", quando la retrospettiva fotografica dedicata a Robert Mapplethorpe alla Corcoran Gallery of Art a Washington venne cancellata perchè ritenuta "oscena", e quindi "non adatta" ad una struttura finanzata (anche) con denaro pubblico.
Philip Guston (1913-1980) comunque non riempiva in genere le sue tele di tette, posteriori e membri maschili. Artista americano, associato in genere all'Espressionismo Astratto (forse più per ragioni anagrafico/geografiche che strettamente artistiche), ha di fatto raccontato l'America con una figurazione molto personale, figlia un po' dello stile dei Cartoon e un po' del suo impegno civile e politico che richiedeva, per funzionare, di una certa immediatezza visiva quasi ingenua (solo in apparenza semplice).
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Di origini ebraiche, Guston si poneva il problema di come sottolineare la "banalità del male", in questo caso, lo strisciante e diffuso razzismo della società americana verso la comunità Afro-Americana. In una serie di suoi lavori (negli anni '60) dipinge, dei personaggini, apparentemente ordinari, che portano sulla testa i famigerati cappucci bianchi (quelli del Ku Klux Klan). Sembrano delle marionette che mormorano strane cantilene.
Alcuni sono concepiti come dei virtuali auto-ritratti (come "The Studio", del 1969) proprio per mostrare come sia difficile, proprio-per-tutti, essere completamente indenni dal pregiudizio e da forme consolidate di arroganza (anche quella intellettuale, quando è il caso). Insomma un artista con una integrità sul piano del "race issue" al di sopra di ogni sospetto, non di certo un suprematista bianco o roba del genere. Molti forse ricorderanno i suoi lavori esposti nel 2017 presso le Gallerie dell'Accademia di Venezia.
La mostra cancellata (un importante progetto con ben 125 quadri, 70 disegni e con contributi critici di artisti come Trenton Doyle Hancock and Glenn Ligon) doveva essere ospitata anche alla National Gallery of Art di Washington, al Museum of Fine Arts di Houston e al Museum of Fine Arts di Boston.
PHILIP GUSTON NOW
E sono stati proprio i musei americani, sull'onda delle forti proteste legati all'uccisione di George Floyd a Minneapolis (#blacklivesmatter), che hanno pensato di fermare la mostra e posticiparla a-data-da-destinarsi per evitare eventuali nuove polemiche e contestazioni (forse anche dimostrazioni?...) che potrebbero trarre origine dagli omini incappucciati di Guston. In un quadro c'è persino dipinta una forca, elemento spesso legato alla ferocia del KKK.
Certo la situazione è difficile e l'Amministrazione Trum ha gestito davvero molto male la delicata situazione. Ma quello che sembra essere il nocciolo della faccenda è una possibile accusa di "appropriazione" di specifiche tematiche razziali da parte di un artista bianco, tema che, secondo i dettami culturali in vog,a dovrebbe essere "riservata" a solo ed esclusivo appannaggio di artisti Afro-Americani. La Tate Modern, di fatto, ha solo confermato questa decisione d'oltreoceano.
PHILIP GUSTON NOW
Un caso di auto-censura preventiva insomma, appoggiata pubblicamente anche da uno dei grandi sponsor della NGA di Washington, la Ford Foundation attraverso il suo portavoce Darren Walker. Invece esperti dell'opera di Guston del calibro di Robert Storr hanno decisamente criticato la decisione e così pure la figlia dell'artista Musa Mayer che ha ribadito le cristalline convinzioni politico-artistiche deli'illustre babbo.
Nel mondo anglosassone è partita diversi anni fa la questione del linguaggio "Politically correct", e non a torto dato che effettivamente il lessico usato (con le sue taglienti sfumature) racconta con implacabile efficacia cosa c'è davvero nell'animo di chi parla.
Si è poi passati al "Racially correct" applicato in maniera estensiva a tutta (o quasi) la produzione culturale, anche questo è stato, almeno in un paese come gli Stati Uniti, un passo opportuno e necessario (i debiti morali da saldare per lo schiavismo americano sono ancora numerosi, purtroppo). Ad un certo punto un'accelerazione di questo processo a portato ad una rilettura critica e radicale della Storia stessa. Siamo all' "Historically correct".
L'affermare, in un clima di ossessione collettiva, che il monopolio su questi temi va ascritto ai soli artisti di colore potrebbe ricordare un clima che odora di maccartismo culturale (con relativa "caccia alle streghe"). Assomiglia curiosamente ad una specie di "segregazione" all'inverso.
PHILIP GUSTON NOW
Fare i conti con la Storia (anche equipaggiati con le migliori intenzioni) è sempre molto insidioso: si entra in una spirale senza fine, in Europa si finirebbe per dover "restituire" i Dardanelli ai Troiani, la Lombardia ai Galli Senoni di Brenno e la Toscana agli Etruschi. Più concretamente ri-scrivere la Storia e modificarne i simboli comporta il rischio di minare e indebolire l'identità di comunità (e persone) che spesso hanno proprio nel passato le poche certezze che possiedono.
Situazioni di questo tipo negli USA hanno ingrossato le file dei Trumpiani e non certo quelle dei sostenitori di Biden. Dopo tutto, forse, sarebbe più saggio, anzichè cercare postume vendette, concentrarsi per combattere le tante subdole forme di schiavitù contemporanea che prosperano indisturbate nel mondo d'oggi.
PHILIP GUSTON NOW
I musei del Regno Unito in questo stesso momento stanno attraversando una grande crisi epocale. Il Covid ha praticamente quasi azzerato i visitatori e le relative entrate (biglietti, bookshop e caffetterie). Molte aziende che ne sostenevano finanziariamente le attività sono state allontanate per ragioni di "opportunità di immagine" come la BP o la Sackler. Altre, almeno apparentemente più "pulite", hanno banalmente ridotto il loro supporto a causa della crisi economica.
I collezionsiti importanti tendono sempre più spesso ad aprire proprie fondazioni/musei privati sospendendo di conseguenza i prestiti di opere. Qualcuno per sopravvivere vende all'asta i "gioielli di famiglia". Ma non solo sofferenze economiche: le forti pressioni mediatiche in termini di "correttezza" stanno mettendo a dura prova molti progetti già avviati e tutti cercano di trovare comunque nuovi assetti culturali.
ANTONIO RIELLO
Due esempi? Di pochi giorni fa la dichiarazione del direttore della National Gallery, Gabriele Finaldi, che dice con chiarezza che anche la NG deve iniziare ad affrontare seriamente il "Black Lives Matter".
Il British Museum, da parte sua, deve fare i conti (non semplice cosa) con Mr Hans Sloane il cui lascito diede vita, nel 1753, al Museo stesso. Sloane (Sì, Sloane Square prende nome proprio da lui) era un abbiente medico londinese che si arricchì con le piantagioni Giamaicane di canna da zucchero, dove lavoravano molti schiavi africani. Il Direttore, Hartwig Fischer, per il momento si è limitato a rimuovere in una teca seminascosta il busto in terracotta di Sloane che fino a poche settimane fa campeggiava pomposamente nel grande atrio.
Alla fine, l'annullamento della mostra di Guston è un paradosso basato sulla paura e l'insicurezza delle potenti istituzioni museali anglosassoni. Non si fidano delle proprie performances culturali e sono spaventate dal giudizio che il popolo dei social ne potrebbe dare. Quello che questi organismi più temono è di non riuscire a comunicare alla "gente comune" il "giusto messaggio".
E invece è proprio da queste sfide - magari difficili - che dovrebbero trarre oggi la loro principale ragion d'essere: informare in ogni caso e contestualizzare correttamente. "Far capire" appunto, e non essere ambiguamente paternalistici. Proprio quello che Godfrey lamenta nel suo sfogo sulla Tate.
E che anche la stampa britannica in questi giorni sottolinea (tra tutti David Aaronovitch sul Times e Kenny Schachter sull' Observer).
philip guston the street 1977
Il pensare che la gente comune, malgrado sia stata bene informata, non capisca - o peggio "non possa capire" - nasce in fondo proprio dalla stessa radice di arroganza culturale colonialista (e razzista) che molti attivisti vorrebbero tanto, con ogni mezzo, cercare di combattere.