Luigi Di Maio per “il Foglio”
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A quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, le due parti restano ferme su posizioni nettamente contrapposte. Sul lato ucraino si guarda ai prossimi passi della controffensiva, con la massima attenzione alla primavera, mentre l’antiaerea migliora la capacità di abbattere i droni russi.
Sul lato russo, invece, l’esercito sta già inviando sul campo una parte delle decine di migliaia di nuovi coscritti, senza ottenere grande successo. Chi parla con gli ucraini in questi giorni ascolta un messaggio inequivocabile: finché l’invasore russo non lascerà i territori invasi, la resistenza non smetterà di respingerli.
In Occidente l’opinione pubblica è divisa. Una parte, inclusa la nostra, ritiene che gli Stati Uniti debbano fermare questa guerra cessando il supporto militare e convincendo, ovvero costringendo Zelensky a desistere. Un’analisi semplicistica, che lega le sorti del conflitto esclusivamente a decisioni delle classi dirigenti. Sottovalutando la forza della resistenza Ucraina, che non è solo un movimento di establishment, ma prima di tutto un movimento di popolo.
LA STRETTA DI MANO TRA DRAGHI E ZELENSKY
Se un giorno – ragionando per assurdo – Zelensky dovesse decidere di arrendersi, è certo che il popolo ucraino, l’esercito e i suoi generali non lo seguirebbero. Nelle ultime settimane la guerra è entrata nella sua fase più drammatica: mentre il mondo cristiano festeggiava il Natale, la Federazione russa bombardava le infrastrutture civili ucraine con l’utilizzo di droni kamikaze di fabbricazione iraniana, costringendo milioni di ucraini a trascorrere le festività religiose con pesanti razionamenti di luce e acqua, senza riscaldamento, al freddo e sotto le bombe.
Nonostante questo, l’esodo pronosticato di milioni di civili ucraini non si è avverato. Quegli ucraini restano in Ucraina. Non sono loro a chiedere di arrendersi, ma paradossalmente lo fanno opinionisti, politici e altre categorie, che fuori dall’Ucraina hanno gas, luce e acqua, lontano dalle bombe.
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Per gli ucraini non esiste che una sola soluzione: riprendersi la propria terra. Parlando con molti di loro si capisce che questo potrebbe già accadere in primavera, ma dovranno fare i conti con i circa 300.000 coscritti che la Federazione russa sta già inviando.
Chiunque nell’estate del 2022 fosse salito sul treno che dal confine con la Polonia portava – in 12/14 ore – a Kyiv, avrebbe capito in maniera molto chiara perché Zelensky, Kuleba e il resto del governo ucraino siano convinti di potersi riprendere il proprio paese.
ZELENSKY - DRAGHI - SCHOLZ - MACRON
Immediatamente dopo l’attacco del 24 febbraio, oltre 5 milioni di civili hanno varcato il confine ucraino. Durante l’estate dello scorso anno, però, dopo pochi mesi da quel primo esodo – nonostante l’avanzata russa nell’est del paese – qualcosa è cambiato: abbiamo assistito a un’inversione di tendenza.
Ogni giorno migliaia di donne tenendo per mano i loro bambini – spesso piccolissimi – prendevano quel treno per tornare a casa. Per tornare in Ucraina. Per sostenere i loro mariti, i loro fratelli. Per prepararsi alla controffensiva che stava per iniziare. Erano infatti i giorni in cui il comando di Kyiv stava pianificando la prima vera controffensiva all’esercito russo, quella che di lì a poche settimane avrebbe portato alla liberazione di Kharkiv e al respingimento delle truppe russe oltre il Dnipro. La comunità occidentale è stata determinante in questo conflitto, offrendo il sostegno finanziario, umanitario e militare a un paese alleato, contro il suo invasore. Ma non esistono eserciti, senza motivazioni forti. Prima fra tutte, quella di difendere la propria nazione.
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Lo abbiamo visto nel 2021 con l’Afghanistan, dove l’esercito regolare, armato fino ai denti, è scappato a gambe levate all’arrivo dei talebani. Gli ucraini sono stati ampiamente sottovalutati in tanti aspetti, ma la svista più clamorosa è stata quella di pensare che non si riconoscessero in una nazione – addirittura c’era chi ne ipotizzava due – per via dell’enorme numero di russofoni. Ma questi ultimi non sono mai stati in maggioranza russofili (dopotutto anche Zelensky era un russofono).
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Lo hanno capito più di tutti le truppe russe che quando sono entrate nell’est del paese si aspettavano i tappeti rossi, ma hanno trovato la resistenza. E così, dall’inizio del conflitto, le pulsioni europeiste, atlantiste, democratiche e sovrane della nazione ucraina hanno influenzato il dibattito pubblico in tutto il mondo. Un fenomeno che ha impresso forti accelerazioni a processi economici, energetici e politici, dopo anni di inerzia. Siamo stati messi davanti a uno specchio, e abbiamo visto chiaramente alcune delle nostre contraddizioni. La nostra consapevolezza come Stati è cambiata. E stiamo correndo ai ripari verso un modello più resiliente e sovrano.
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Almeno un grazie da parte nostra gli ucraini se lo meritano. Perché in dieci mesi abbiamo fatto scelte veramente coraggiose, che ci hanno rafforzato nell’appartenenza alle nostre comunità di valori, rendendole più coese. Il multilateralismo All’inizio del 2022 lo sforzo diplomatico per convincere Putin a non entrare in Ucraina è stato notevole e ha visto come fulcro fondamentale dell’iniziativa diplomatica le autorevoli presidenza francese dell’Unione Europea e presidenza tedesca del G7: nessuno dimentica il famigerato tavolone di Putin dove riceveva – a distanza – i suoi interlocutori, in primis Macron e Scholz.
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Mente chi sostiene che l’Europa non sia stata protagonista del tentativo di scongiurare la guerra e garantire la pace. Quando lo zar ha deciso di attaccare, e i paesi del mondo sono stati chiamati a schierarsi, con un po’ di meraviglia la comunità internazionale si è scoperta molto più compatta di quanto si pensasse: l’Assemblea generale dell’Onu di inizio marzo, dopo una forte azione di outreach dei paesi G7, ha approvato una risoluzione storica, con 141 voti contro l’invasione russa.
Al Consiglio d’Europa poche settimane dopo, sotto la presidenza dell’Italia, il Consiglio dei ministri ha espulso la Russia dal formato. Una decisione all’unanimità. Stessa sorte per nel Consiglio dei diritti umani. La Corte penale internazionale ha avviato un procedimento per verificare i crimini di guerra in Ucraina (anche se Kyiv chiede con insistenza un tribunale internazionale speciale per processare i vertici russi). D’un tratto il formato G7 – grazie alla presidenza tedesca – ha trovato nuova linfa ed è diventato il centro del coordinamento delle azioni in favore degli ucraini, ispirando il formato Ramstein, che ha visto l’adesione di paesi come Israele.
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L’Italia ha dovuto modificare le proprie normative sul supporto finanziario, umanitario e militare a uno stato estero, con non poche conseguenze politiche.
L’UNIONE EUROPEA
Gli ucraini hanno anche portato al centro del dibattito mondiale l’importanza di vedersi riconosciuto lo status di paese candidato Ue. Un passaggio ampiamente sottovalutato da noi europei, nei Balcani ad esempio.
Da Kyiv sotto le bombe, Zelensky chiedeva un passo chiaro alle istituzioni Ue. Dopo un primo esitare disarmante, due sono state le iniziative decisive che hanno sbloccato lo stallo: dapprima il Parlamento europeo, sotto la guida della presidente Roberta Metsola, con l’approvazione di una risoluzione a larghissima maggioranza.
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E successivamente l’iniziativa del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi – all’inizio unico sostenitore del riconoscimento – che ha visto appianarsi definitivamente le differenze sullo storico treno per Kyiv, con Macron e Scholz. L’Unione Europea sotto la guida della presidente von der Leyen e del presidente Michel ha, con enorme sacrificio, varato quasi 10 pacchetti di sanzioni, che poi sono stati adottati anche da paesi notoriamente neutrali come la Svizzera.
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L’Ue, per far fronte a questa crisi, con le decisioni assunte dall’alto rappresentante Josep Borrel ha anche coraggiosamente stravolto le regole della European Peace Facility. Infine gli investimenti e il supporto umanitario per i paesi più a rischio come la Moldova, hanno fatto cambiare passo all’Ue nelle politiche di vicinato.
L’ALLEANZA ATLANTICA
Da anni, sul tavolo degli alleati, due su tutte erano le questioni che creavano profondi attriti tra i paesi delle due sponde dell’Atlantico: la questione della dipendenza energetica dalla Russia – culminata nelle “accese” discussioni tra Trump e Merkel sul North Stream 2 – e quella dei mancati investimenti nell’industria militare.
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L’esigenza di prendere posizione rispetto all’aggressione russa ha impresso cambiamenti repentini nelle politiche energetiche di molti stati. Grazie all’azione del governo Draghi, in pochi mesi la dipendenza dell’Italia dal gas russo si è ridotta di circa tre quarti. E nei prossimi mesi, grazie all’entrata in vigore degli accordi energetici e dei due nuovi rigassificatori, si ridurrà ulteriormente.
Lo stesso vale per il petrolio russo: proprio in questi giorni il ministro Urso e il ministro Pichetto Fratin stanno gettando le basi per sganciare definitivamente la raffineria di Priolo dalla dipendenza russa. Il 20 per cento di tutto il fabbisogno di carburante dell’Italia viene da lì.
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La Germania era in una posizione ancor più delicata della nostra: oltre ad aver fermato il North Stream 2, ha avviato da subito la costruzione di sei rigassificatori per importare gas da altri paesi del mondo, ha nazionalizzato gli stoccaggi (che erano nelle mani di Gazprom) e ha approvato un massiccio piano di investimenti da 100 miliardi di euro per aggiornare i propri sistemi di difesa. Altre azioni simili sono state adottate da altri stati dell’Alleanza. La Nato intanto avviava la procedura di allargamento a Svezia e Finlandia.
LA CONTINUITÀ DELL’AZIONE POLITICA
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La crisi del governo italiano nel luglio del 2022 aveva messo a repentaglio le politiche a favore dell’Ucraina e quelle per mitigare l’impatto economico della guerra. Il nuovo governo, pur marcando profonde differenze da quello precedente, ha deciso di assicurare piena continuità all’azione di supporto politico, finanziario e militare all’Ucraina.
Sia il presidente Meloni che i ministri Tajani, Crosetto e Fitto hanno lanciato messaggi molto chiari. Anche questo ha permesso al dicastero dell’Energia di portare a casa il “price cap” europeo. Un successo ottenuto dall’Italia a cavallo di due governi, che seppur preveda un tetto troppo alto, crea di fatto un precedente importante contro gli speculatori del famigerato Ttf di Amsterdam.
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Adesso la prossima sfida del governo italiano sarà aiutare Zelensky a neutralizzare definitivamente i droni russi di fabbricazione iraniana che stanno bombardando le centrali elettriche ucraine, costringendo – al limite dei diritti umani – milioni di civili al buio e senza acqua. Il comando ucraino ha migliorato molto la sua capacità di abbatterli, grazie al sistema antiaereo “Gepard” fornito dai tedeschi. Ma sono solo 30 cannoni contro il primo lotto di 1.750 droni che Teheran si è impegnata a fornire a Mosca. L’Italia può dare un aiuto importante, come chiedono gli alleati. La pace Tutti quanti ci auguriamo che si possa ottenere al più presto una pace giusta.
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Ma per ora è ben chiaro, nonostante la proposta in 10 punti di Zelensky e le reazioni del Cremlino, che la fiducia tra le due parti è sotto lo zero. Piccoli passi avanti ci sono stati, e, insieme alle Nazioni Unite, il paese Nato che più di tutti gli altri è stato protagonista di mediazioni è la Turchia. L’accordo sull’export di grano dal Mar Nero – senza il quale sarebbero scoppiate altre guerre in Africa e Medio Oriente – i vari accordi sullo scambio di prigionieri, e i due round di colloqui prima ad Antalya e poi a Istanbul (prima che i crimini di Bucha facessero saltare il tavolo) sono stati ottenuti grazie alla mediazione turca.
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E se pensiamo al fatto che sono accordi firmati tra Kyiv e Mosca mentre si combattono sul campo ogni giorno, la fiamma della speranza nella pace può restare accesa. In conclusione possiamo dire che gli ucraini hanno cambiato noi molto più di quanto abbiano cambiato sé stessi: la loro posizione sulla Russia e le sue pretese ci è ben nota, in particolare nell’ultimo decennio. La nostra, quella della comunità internazionale, adesso è molto più chiara di prima. Quindi grazie, Ucraina.