Pier Luigi Vercesi per "Il Corriere"
Benedetta Barzini
Benedetta Barzini, nipote del mito del giornalismo Luigi, che oltre cent’anni fa correva in groppa a un ronzino e si arrampicava sui tralicci dell’Estremo Oriente per far giungere al «Corriere della Sera»il suo racconto di guerre esotiche.
Figlia di un altro Luigi Barzini, junior, giornalista famoso anche negli Usa e della vedova di Carlo Feltrinelli, madre di Giangiacomo, con un patrimonio consistente: infanzia dorata, immaginiamo…
Benedetta Barzini
«Sono stata allevata da diciassette signorine senza mai vedere mia madre: un orfanotrofio privato. Cosa vuoi?, sei ricca: solo i bambini poveri assomigliano a Oliver Twist! Mia madre viveva nei suoi appartamenti. La domenica mattina una tata ci portava a “dire bonjour à maman”.
A fatica arrivavo al letto sovrastato da un piumino di raso rosa. Si parlava francese, solo le persone di servizio si esprimevano in italiano. I miei genitori erano separati, papà viveva con “un’altra” ed era vietato andare da lui. L’ho visto sette volte in tutto».
Benedetta Barzini
Con la scuola è cambiato qualcosa?
«Nel ’47 mamma temeva arrivassero i comunisti, quindi organizzò una specie di esilio a Montevideo per le figlie e le governanti. Durante la traversata dell’oceano, per farci divertire, appendevano una mela a una cordicella: vinceva chi riusciva prenderla con un morso. Mamma non partì con noi e, qualche mese dopo, tornammo indietro perché la Dc aveva vinto le elezioni.
Nel ’49 mi iscrissero alla scuola francese a Roma. C’era un cancello chiuso oltre al quale aspettavano i genitori. Per me c’era l’autista. Il primo anno ottenni il tableau d’honneur, ma potei dirlo solo all’autista. Di lì a poco partimmo per New York, perché mamma voleva un passaporto canadese. Vivevamo al terzo piano di un albergo, mamma al sedicesimo.
Benedetta Barzini
New York era tutta Marilyn Monroe, seni a punta, tacchi a spillo. Ricordo l’immenso sedere della signora che azionava l’ascensore e il negozio dove rubavo le bazooka bubble gum.
A scuola ero una schiappa. M.me Coreal, l’insegnante di matematica, si accorse della mia disperazione e si accordò con la governante per darmi ripetizioni. A casa sua, in realtà, facevamo i biscotti, e questa normalità mi mandò in crisi: se prendi un bambino al brefotrofio e vai al cinema ma alla sera lo riporti indietro, è peggio: meglio non sapere.
Nel 1955, diventate canadesi, partimmo per Ginevra. In Italia si veniva per le feste, ma chiusi in una villa di 13 mila metri cubi di mura. Vietato andare in paese, vietato mangiare i gelati italiani. A Roma, mamma aveva una villa sulle Terme di Caracalla.
Anche lì isolati: nessun amico, nessun compagno di scuola. Io cominciai a non mangiare più e mi spedirono in una clinica di Zurigo».
Sembra di essere finiti in un romanzo di Carolina Invernizio. Come ne uscì?
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«Il sanatorio di Zurigo era diviso in zone. In una i reduci dai campi di concentramento, in un’altra i drogati, gli alcolisti… Compiuti i 18 anni, il 27 ottobre del 1961 decisi di fuggire. La clinica era protetta da un muro con il filo spinato. Passai da Hellen Cook, pianista americana alcolista, per farmi dare dei soldi.
Alle due del pomeriggio, quando le infermiere dormicchiavano, salii su una montagna di foglie secche, mi arrampicai e, graffiandomi le gambe con il filo spinato, saltai dall’altra parte. Mi ritrovai in un campo di mele con un vecchietto che mi guardava. Lo aggredii: sto fuggendo!, e lui allungo il passo. Raggiunsi la stazione.
Benedetta Barzini
Nel gabinetto mi ripulii dal sangue e salii sul primo treno per Ginevra. Arrivai alla villa mentre mamma stava dando una cena. Disse solo: “Sono contenta che sei tornata”. Io galleggiavo nel vacuo. Mi aiutò la moglie del console italiano. Il marito mi diede un passaporto italiano e mi aiutò a ottenere l’emancipazione dal Tribunale dei minori.
Volevo tornare in Italia e mio fratello Giangiacomo Feltrinelli garantì che si sarebbe occupato di me. A Milano mi iscrissi a Brera, poi accadde il miracolo. A Roma, Consuelo Crespi, redattrice di Vogue America, mi fotografò con una collana fatta di spine (me la sento ancora addosso, sembrava la corona di Cristo), e fece avere lo scatto a Diana Vreeland, la direttrice.
Benedetta Barzini
“Mi pare interessante, mandamela qui dieci giorni”. Per la prima volta qualcuno stava dicendo: voglio te, uno scheletro che non ha nemmeno finito le scuole medie. Ci sarei andata anche a lavare i vetri, dalla Vreeland».
Una bella rivincita, no?
«Dovevo concentrare le energie per fare del mio meglio e non cadere nelle trappole. La prima era di credermi bella, perché non ero bella io, era bello il lavoro che facevano su di me, il trucco, i capelli, l’abito, i gioielli e il fotografo Penn e il fotografo Avedon...
Benedetta Barzini
Quando temevo di montarmi la testa mi dicevo: Barzini, ricordati che hai i calzini sporchi. Avevo trovato una stanza nell’appartamento di una donna meravigliosa, Maria Tucci, scappata dall’Italia durante il fascismo. La stanzetta dava su un cortile con edifici di mattoni rossi; giorno e notte si sentiva il wouwou dei condizionatori d’aria.
Mi sedevo sul bordo del letto e cercavo solo di ricostituire le energie per il giorno dopo. Andai in terapia da un medico ungherese scappato nel ’57. Era anziano, fragile, non gli dicevo quasi niente per non dargli dispiaceri.
Anche se gli mentivo, ebbe un effetto benefico su di me: mi tornarono le tette e le mestruazioni. Dovevo decidere se vivere o morire; no, non volevo morire da vittima».
Com’era quel mondo newyorkese?
benedetta barzini e michael avedon
«Stavo alla finestra, andavo alle feste ma fuggivo quasi subito. Ero al ballo Black&White di Truman Capote al Plaza nel ’66. Mi presentavo, esploravo, poi via, a casa, cullata dal mio wouwou. Una sera venni invitata a cena da Jacqueline Kennedy. C’erano Bernstein, Mike Nichols, quel mondo lì insomma.
Sul tardi ci trasferimmo in un altro appartamento per la festa di compleanno di Bob. A mezzanotte arrivò una torta immensa da cui uscirono le conigliette di Playboy. Io me ne stavo in un angolo quando si avvicinò Ted Kennedy. Gentile, disse che viveva a Boston ma veniva spesso a New York.
“Potremmo vederci qualche volta”. Why not? Dissi io. “Allora il mio amico Bill ti chiamerà. Ah, però… ti parlerà di me come di Mr. Moore”. Qualche settimana dopo Laura mi disse: “Ha chiamato un certo Bill”. Io niente.
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La volta successiva ero in casa. Mr. Moore arrivava a New York ma era molto impegnato e poteva vedermi solo all’una di notte. Dovevo raggiungerlo in un building, che era poi casa di sua madre, meglio se entravo dal retro. Accidenti, rispondo io, all’una sono impegnata. “Ma come, sto parlando di Mr. Moore…”. Sì, ma a quell’ora proprio non posso».
Poi c’erano Andy Warhol, Salvador Dalí…
«Andy era sadico: gli piaceva veder rantolare ai suoi piedi i figli dei ricchi collezionisti, tutti strafatti. La Factory era un grande loft con la carta argento intorno, qui i pittori, là i poeti, poi un gruppo di musicisti, i drogati… In quel periodo lanciò i Velvet Underground.
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Una sera, lui da un lato e io dall’altro, creammo luci psichedeliche muovendo le dita in piattini con colori proiettati sullo schermo. Lou Reed era un ragazzotto insignificante… Quanto a Dalí, mi prese in simpatia perché non gli davo retta.
Mi invitava per il tè, io andavo e lo ascoltavo; un giorno non ce la feci più e gli dissi: piantala di fare queste scene! Lui mi trafisse con uno sguardo feroce: “Se avessi avuto un fratello di nome Salvador, morto a nove anni, e poi fossi nato tu e ti avessero chiamato come tuo fratello morto e qualsiasi cosa avessi fatto tuo fratello l’avrebbe fatta meglio…
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Ho dovuto inventare cose che mio fratello non avrebbe potuto fare”. Poi si rasserenò: “Assomigli a Gala quando la sposai nel ’36, ti dispiace se rifacciamo quella cerimonia?”. Nella foto io sono vestita come Gala, tra me e Dalí c’è una torta, dietro il suo assistente Peter con un tigrotto in braccio».
Un’epoca al tramonto, ammazzarono Bob Kennedy, Martin Luther King…
«E nel ’69 smise di suonare il mio telefono. Tornai in Italia, parlando male la lingua. Mi fecero fare qualche programma televisivo, anche se non riuscivo nemmeno a dire: “Ugo Gregoretti”.
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Conobbi un giovane regista, Roberto Faenza, voleva farmi fare un film stranissimo, ne parlammo e, morale, ci innamorammo. Lui vinse una borsa di studio per gli Stati Uniti, lo seguii e partorii due gemelli. Ero a Washington quando mamma mi chiamò per dirmi cos’era successo a Giangiacomo.
Con Faenza finì presto. Tornai in Italia e mi stabilii a Milano. Era il 1972, l’asilo di Piazza Aquileia fu il mio primo luogo di incontri. Feci amicizia con la mamma di una compagna dei miei gemelli, Bianca Beccalli, che insegnava sociologia a Salerno. Lei mi aprì un mondo.
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Mi iscrissi alla sezione del Pci di via Cesariano. Bianca mi propose di coordinare i corsi delle 150 ore per le donne in fabbrica. Fu la mia scuola di vita. Poi mi impegnai nell’Unione donne italiane. I fidanzati andavano e venivano, fino a quando incontrai un altro uomo con cui feci due figli, ma anche quella storia finì.
Mamma mi passava qualcosa e per campare collaboravo con i giornali. La parte più bella della mia esistenza cominciò nel ’96. Mi invitarono a parlare di New York anni ’60 a Urbino. Sei mesi dopo mi chiesero di tenere un corso di Storia del costume.
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Certo, dissi, mentre mi tremavano le gambe perché non ne sapevo nulla. Mi misi a studiare come una matta. Lavorare con i giovani è stata la ricompensa per i miei anni complicati.
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L’ho fatto fino a due anni fa, quando ho capito che anche quel mondo non mi apparteneva più».
È ora di cominciare una nuova vita?
«Lavoro con i ferri, faccio coperte di lana, guardo la tv. Ogni tanto qualcuno mi ferma per strada: “Non ricordo il suo nome, lei non è una ex bella donna?”».
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