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    L’ODISSEA DI JANNIS KOUNELLIS - ''SONO UN VECCHIO ULISSE SENZA ITACA: LASCIAI LA GRECIA E ARRIVAI A ROMA NEL 1956, DOPO UNA NEVICATA. CI HANNO PROVATO MA ANCORA NON SONO RIUSCITI AD AMMAZZARE QUESTA CITTA’ - LA POP ART? UNA FURBATA - COSA MI MANCA DEL PASSATO? NULLA''


     
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    Antonio Gnoli per “la Repubblica”

     

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    Mi raccontò Mimmo Jodice che Jannis Kounellis voleva essere fotografato su una barca. Bisognava trovare quella adatta, perché dopotutto lui era greco e veniva dal mare.

     

    Doveva essere quasi un “ritorno a Itaca”. Ma venne giù una gran pioggia. Entrambi, alla fine, erano due stracci zuppi. «Mi ricordo quella storia, pensavo che la barca dovesse essere il simbolo di qualcosa che parte e non sai se ritorna. Se davvero approda in qualche porto o insenatura. In fondo la mia vita è stata il lungo agitarsi tra le onde di un mare a volte quieto a volte tempestoso».

     

    E questo cambia la predisposizione dell’artista?

    «Il lavoro dell’artista esige tanta disciplina e il controllo sui propri stati d’animo ».

    Che cos’è lo stato d’animo di un artista?

    «Niente di promettente».

    È insoddisfazione?

    «Un artista non è mai appagato. È la sua condanna».

     

    Come dividerebbe il mondo degli artisti?

    «Tra quelli che odiano il cambiamento e quelli che lo desiderano».

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    Lei tra quali si colloca?

    «Non amo i difensori dell’ordine costituito. Ma non è un criterio per stabilire cos’è grande pittura».

    In ogni caso si schiera con i “rivoluzionari”?

    «Sullo sfondo di una mia opera scrissi: “Libertà o morte” ».

    È il motto della bandiera greca.

    «Fu la rivoluzione ellenica contro l’impero ottomano. Ma in realtà pensavo a Byron quando la scrissi. Al suo amore per una terra che era stata classica e libera».

     

    Le sue origini sono greche.

    «Sono nato al Pireo, lì ho trascorso la mia infanzia e l’adolescenza. Non sono stati anni felici per un bambino che sognava giocattoli e trovò bombe. Ricordo una zia che sventuratamente si innamorò di un soldato italiano. Un giorno le portarono la testa dell’innamorato in un sacco. Rimase sconvolta. Cominciò a sragionare e finì in un manicomio».

     

    Sembra l’immagine di una tragedia.

    «Era l’amore trasformato in tradimento agli occhi di chi barbaramente non tollerava che ci si potesse dare allo “straniero”. Ma ancora peggio fu il seguito: la guerra civile che insanguinò, tra il 1945 e il ’48, con i suoi oltre ottantamila morti. Non bastava il dolore che avevamo provato prima; occorreva riviverlo moltiplicato. Non siamo mai stati una terra felice».

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    Per questo se ne è andato?

    «Partii non avendo la piena consapevolezza di un addio definitivo. Giunsi a Roma nel 1956. Fu l’anno della grande nevicata. Sentivo che sotto quella coltre bianca poteva rinascere qualcosa».

     

    Intende che poteva nascere la sua arte?

    «Frequentai l’Accademia dell’arte. C’era Mino Maccari che insegnava incisione, c’erano Franco Gentilini e Ferruccio Ferrazzi e c’era soprattutto Toti Scialoja che per me rivestì un’importanza fondamentale».

     

    Che ricordo ne ha?

    «Intanto era un uomo dai molteplici interessi. Letterari e artistici. Aveva viaggiato a lungo e soggiornato a New York e a Parigi. Aveva esposto i suoi lavori conosciuto e frequentato artisti come Rothko e de Kooning, cioè l’espressionismo astratto. E riversò queste sue esperienze nell’insegnamento.

     

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    Fu un uomo del cambiamento: sottile, melanconico, arguto. Non un pittore da cavalletto. I suoi quadri non avevano prospettive, né tonalità. Erano pura azione dentro uno spazio. Gli devo molto. Tra l’altro fu lui a farmi realizzare la mia prima personale: nel 1960 alla galleria “La tartaruga” di Plinio de Martiis. Credo che a Plinio molti artisti romani debbano qualcosa».

     

    Cos’era la Roma di quegli anni?

    «Era una città che sopportava stoicamente sfregi e ferite. Hanno provato, continuano a provarci, ma ancora non ci sono riusciti ad ammazzarla. Il suo fascino comprendeva la cialtroneria creativa e la sublime resistenza al cambiamento. Un mix che piacque agli americani che vennero a conoscere i nativi di questa antica civiltà».

     

    Sbarcarono in massa: Truman Capote, Gore Vidal, George Santayana e poi Rauschenberg, Warhol, De Kooning, Twombly. Roma sembrava Fort Alamo al contrario.

    «Più che un assedio fu un corteggiamento, senza morti né feriti. Alla fine gli unici che si fecero davvero male furono quei pittori romani in odore di trasgressione. Peccato perché alcuni erano davvero bravi».

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    L’America che effetto le fece?

    «Mi si rivelò nel 1958 quando arrivò alla Galleria d’Arte Moderna la prima grande mostra di Jackson Pollock, sotto la regia di Palma Bucarelli. Quella mostra fu pazzesca. Era come se Mosè avesse improvvisamente ordinato alle acque di aprirsi, tanta fu la meraviglia. Mi fu chiara una cosa: Pollock aveva abbandonato il quadro».

     

    In che senso?

    «Si liberò della tradizione pittorica, del cavalletto. Anche fisicamente adottò un altro modo di dipingere. E quella generazione nella quale inserirei anche Franz Kline fu all’origine del grande cambiamento».

     

    C’era anche la Pop Art?

    «Una furbata. Quando alla fine del 1958 feci un viaggio a New York vidi a un tratto, come insegna sulla parete di un edificio, un grande manifesto in cui un uomo fumava tenendo un pacchetto di Camel in mano; lì compresi immediatamente cos’era la Pop Art: urbanizzazione del paesaggio e messaggio pubblicitario. Non c’entrava niente con quel gesto che era stato all’origine dello sconvolgimento del Novecento: Les Demoiselles d’Avignon che Picasso dipinse nel 1907».

     

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    Perché gli attribuisce questa importanza?

    «Perché rivoluziona quello che gli impressionisti avevano fatto, portando la pittura all’esterno. L’impressionismo è il grande antecedente della Pop Art. Se Warhol fosse nato nell’Ottocento avrebbe potuto tranquillamente dipingere, ammesso che ne avesse avuto le capacità, come Monet o Renoir: atmosfere gaie e di festa.

     

    Come la pubblicità, appunto. Tutto en plein air. Mentre Picasso è tutto interno. Ma è un interno che cambia la grammatica delle forme e dei colori. È un universo che implode, come quello di Pollock, mezzo secolo dopo».

     

    All’opposto di Pollock c’è Edward Hopper. In fondo Hopper ricompone quello che stava andando in mille pezzi

    «Non sono proprio coetanei. Hopper arriva dall’Ottocento. Si rende conto che non può fare una pittura festosa. Comprende che il Novecento è il secolo della solitudine e questo sentimento se lo trascina appresso per tutta la vita. Ma resta un pittore da cavalletto. Deve ancora dipingere subendo la realtà. È un artista senza eroismo. Mentre Pollock si mette nel solco dell’epicità».

     

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    Pensano all’America con due sentimenti opposti. Eppure entrambi ne colgono un aspetto fondamentale.

    «Hopper mi ricorda Glenn Miller, musica da cinema. Mentre Pollock rinvia al jazz. Viene in mente Billie Holiday. Entrambi ci hanno regalato una grande idea di libertà mentale».

     

    Questo omaggio agli artisti del cambiamento non riduce troppo la portata di coloro vi si opposero?

    «Non sto parlando della qualità di un’opera. David è un grande artista. Ma è, in qualche modo, un artista del potere. Non indica una strada. La chiude con dei cartelli. Questo non significa che La morte di Marat non sia un grande quadro. Ma non ci leggi l’epicità, bensì la celebrazione ».

    Come spiega il rifiuto del cavalletto?

    «È una forma di pittura che non ha più forza né credibilità. Cézanne, Picasso, Pollock, Rodtchenko, De Chirico gli hanno tolto legittimità. Ciò che resta in pittura è la teatralità dello spazio. Dove posso depositare dei sacchi di carbone, accendere delle candele, mettere dei cavalli ».

     

    I suoi cavalli furono una grande trovata?

    «Trovata? Direi piuttosto un’idea di libertà. Ancora i cavalli sul muro, nel perimetro dello spazio della galleria romana “L’Attico”. Era il 1969. Dodici cavalli messi in uno spazio come fosse una stalla. L’ultima replica l’anno scorso a New York».

    Che reazione c’è stata?

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    «La medesima della prima volta: curiosità, eccitazione, coinvolgimento. La domanda è chi ha il sopravvento tra cultura e natura? Tra provocazione e inerzia? C’è bisogno di entrambi nella consapevolezza che l’artista è sempre meno protagonista e sempre più testimone di qualcosa che accade».

     

    Allude all’impotenza dell’artista?

    «Parlerei di uno sguardo che è ai margini di un’impresa. Uno sguardo teatrale».

    L’arte come teatro non è una limitazione?

    «Perché? Tutti i grandi artisti hanno qualcosa di teatrale. È una delle ragioni che mi ha spinto a lavorare per il teatro. Soprattutto in Germania. Ricordo che nel 1991 al Deutsches Theater di Berlino realizzai i quadri scenici per Mauser di Heiner Müller. Quel lavoro voleva essere la trascrizione della Storia della Croce di Piero nel ciclo di affreschi di Arezzo».

     

    Qual è il suo rapporto con l’antico?

    «È il legame con la storia e le tracce che l’artista sa di ritrovare e a volte ritrova, come un rabdomante con la sua acqua. L’artista dialoga con tutta l’arte, ma poi ha i suoi prediletti».

    I suoi chi sono?

    «Masaccio e Caravaggio. Mi danno l’idea di che cosa sia il peso dell’arte».

     

    Il peso?

    HOPPER 2 HOPPER 2

    «Sì, il contrario del virtuale. Il virtuale è la novità che non porta a nessuna novità. Il peso polarizza lo spazio. È una qualità. Un’indicazione per voler riscoprire qualcosa di concreto».

    Accennava al ciclo della Croce di Piero. Cosa le suggerisce il peso della croce?

    «Mi ossessiona e mi accompagna. Realizzai una lamiera doppia e obliqua che rappresentava una Croce. E un una volta che Francesco Clemente venne al mio studio, si mise sotto di essa e la prese sulle spalle».

     

    Cosa vide?

    «Vidi qualcosa che mi divertiva e mi disturbava. A me piace la croce cadente senza il Cristo, anche se è ovvio il riferimento a lui. Ma il problema non è la rappresentazione della Croce, ma la presentazione».

    Non capisco.

    «La rappresentazione implica una volontà, un progetto, una regia. Il mio è un teatro involontario. Tutta la forza del peso è nell’opera non nell’artista».

    È così che lavora?

    «È così che lavoro. Per i miei sacchi di carbone, poniamo, la considerazione principale non va alla materia ma al peso».

    Quadro di Mondrian Quadro di Mondrian

     

    Ma il peso presuppone la materia.

    «Non la ignoro, ma se essa lo vincolasse, allora il “mio” sacco di carbone potrebbe tranquillamente alimentare qualche stufa».

    E invece?

    «Invece l’opera è lì – dentro una fabbrica abbandonata, l’interno di un museo o di una galleria – a vivere la sua pienezza drammaturgica».

     

    La definiscono un’espressione dell’arte povera.

    «Mi riconosco. Povera ma non minimalista».

     

    Perché povera?

    «Il termine è di Germano Celant l’ha mutuato da Grotowski, dall’idea che ci fosse un teatro povero. La povertà è il peso dl dramma. Per questo sono un ombroso. Amo l’ombra che va verso lo scuro. È una sensazione diversa da quella che può offrire una pittura dal colore piatto. Mondrian è piatto. Goya è ombra. Entrambi importanti, ma in modo diverso».

     

    L’ombra preannuncia la morte. Come la vive un artista?

    «Un pittore lavora fino alla fine. Fare l’artista significa che non vai in pensione, che non hai vacanze, non hai domeniche. Non ci sono pause. Tutta la sua vita è racchiusa nel gesto del dipingere. Il suo non è un mestiere è un’illuminazione e la morte, anche la morte nella sua suprema incontrovertibilità, vi appartiene».

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    Torna mai alle sue radici, per esempio in Grecia?

    «Le radici sono nella testa non ai piedi e nel suolo. Avevo una casa in un’isola, ma per 25 anni non sono mai tornato. Adesso forse è diverso. Ogni tanto penso al passato come un vecchio Ulisse senza la sua Itaca».

     

    Cosa le manca del passato?

    «Nulla e poi cos’è questo passato? Quello che abbiamo amato o detestato? Quello che ci ha reso migliori o peggiori? Le occasioni colte o quelle mai sfiorate? I sì alla vita? I no alla vita? Che cosa è questa memoria selettiva che lascia fuori una marea di cose di cui non abbiamo la benché minima coscienza? Definirebbe tutto questo passato? La sola cosa che mi interessa è l’uomo nel suo oggi ».

     

    La sua sostanza oggi è messa a dura prova.

    «Non c’è dubbio ma il deterioramento non è colpa dell’uomo ma delle potenze dell’economia. L’economia non ha più niente a che fare con la sua origine, quando era Oikos cioè casa. Siamo stati sfrattati dall’economia, dalle sue leggi, dai suoi algoritmi».

     

    Qual è il suo rapporto col denaro?

    «Non sono contrario al denaro. Ma non è lo scopo principale dell’artista. L’arte come la poesia deve difendere la propria autonomia».

    Si dice così.

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    «È vero, ma cosa dovrei risponderle? Mi ha aiutato questa Roma vecchia e slabbrata che non conosce il culto della dipendenza e della sottomissione. Ma solo quello della pazienza».

     

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