Viola Ardone per “la Stampa”
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Il problema è sempre il lupo cattivo. Quello che un tempo era nascosto nel bosco, in agguato per sorprendere Cappuccetto rosso, carpirle informazioni sulla nonnina e convincerla a giocare con lui. La mamma l' aveva messa in guardia, ma lei, Cappuccetto, si era fatta soggiogare - oggi diremmo plagiare - dai modi gentili e dalla voce suadente del lupo.
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Il finale lo conosciamo tutti: Cappuccetto arriva dalla nonna, ma anche lì qualcosa non va. Sotto le coltri c' è il lupo cattivo, ancora lui, mascherato questa volta da vecchina. Cappuccetto lo scopre ("che orecchie grandi che hai, che occhi grandi che hai, che bocca grande") ma è troppo tardi, per lei non c' è più scampo. Nella versione originale della fiaba, quella più crudelmente realistica raccontata da Charles Perrault, la storia finisce così. I fratelli Grimm nell' Ottocento immaginarono poi un epilogo a lieto fine, permettendo a Cappuccetto di ritornare a casa, dopo la terribile ma istruttiva avventura.
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I tempi cambiano e anche i racconti per l' infanzia, ma il lupo è sempre lì, assume aspetti e nomi differenti per incarnare quel buco nero di paura e solitudine in cui bambini e ragazzi di ogni generazione possono cadere. E purtroppo alcune storie il lieto fine non ce l' hanno.
Ha incontrato il lupo cattivo il bambino di undici anni che la notte scorsa a Napoli ha lasciato un messaggino ai genitori prima di precipitare nel vuoto dall' undicesimo piano della sua casa nel cuore della notte.
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Il suo lupo cattivo si chiamava "l' uomo col cappuccio", l' ha trovato probabilmente nelle pieghe infinite della Rete, ne è stato irretito e ha dovuto seguirlo fino in fondo, in un luogo così buio e solitario da non permettergli di far ritorno ai suoi genitori. Una famiglia normale, un bambino normale, in un contesto normale.
Non c' è infanzia abbandonata qui, né genitori indifferenti né minori a rischio. Quella famiglia potrebbe essere la nostra, è la nostra, quel bambino potrebbe essere nostro figlio. E allora, come è potuto accadere che sia finito nelle grinfie di quello che un tempo le nonne chiamavano "l' uomo nero", quello che, se non fai attenzione, ti porta via per sempre?
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Lo sapevano bene, quelle nonne, che bisogna avvertire i più giovani dei pericoli, anche a costo di spaventarli con storie terrificanti, fiabe della buonanotte che invece di farti scivolare tranquillo nel sonno ti tengono sveglio con incubi paurosi. Eppure quella narrazione era funzionale alla crescita, perché faceva entrare nell' immaginario dei ragazzini il concetto di male, di pericolo, di morte.
Oggi i bambini nel bosco da soli non ci vanno e nemmeno per strada: meglio tenerli a casa, nella stanza a fianco, magari intrattenuti da tablet, dal telefonino o dalla consolle, ma almeno sotto i nostri occhi, vicini a noi. Ma a che serve tenerli fuori dal bosco perché non incontrino il lupo e lasciare, contemporaneamente, che il lupo entri nelle nostre case senza che nemmeno ce ne rendiamo conto? Sotto i nostri occhi, appunto.
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Che senso ha allontanarli dai pericoli del "fuori" e lasciarli vagare in un universo vastissimo e in definitiva sconosciuto anche per noi, in cui sono sommersi da stimoli a fare, ad agire, a cliccare? Il mondo virtuale è un luogo in cui il pensiero viene dopo l' azione: non si ha il tempo di valutare in anticipo le conseguenze dei propri gesti, si agisce d' impulso ed è facile - fin troppo facile per un bambino - passare nel giro di pochi clic dal gioco all' incubo, dall' illusione di dominare uno strumento all' esserne dominati, sopraffatti.
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Il lupo cattivo esiste e ci sarà sempre a minacciare i nostri bambini, nelle antiche favole e nella realtà. Ed è per questo che non dobbiamo lasciarli andare da soli nel bosco della Rete. Bisogna proteggerli, tracciargli delle mappe, insegnargli la rotta e, se possibile, dirottarli verso altre forme di intrattenimento. Ma in ogni caso accompagnarli, tenerli per la mano perché non debbano cadere.
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