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    “L'UTILIZZO DELLO SCHWA? UNA TOPPA LINGUISTICA PEGGIORE DEL BUCO” – MIRELLA SERRI LE SUONA AI TALEBANI DELLA LINGUA ETICA: “L'UTILIZZO DEL SIMBOLO RAPPRESENTA VERAMENTE I DIRITTI DELLE DONNE, DELLE PERSONE TRANSGENDER E LA LOTTA AL PATRIARCATO? LE DISEGUAGLIANZE RISIEDONO NELLE DISCRIMINAZIONI, NEL GENDER GAP, NEI DIRITTI NEGATI. DOBBIAMO MOBILITARCI PER ELIMINARE TUTTO CIÒ MA LO SCHWA A QUESTO SCOPO PROPRIO NON SERVE…”


     
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    Mirella Serri per “la Stampa”

     

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    Lo schwa, il controverso morfema che appartiene all'alfabeto fonetico internazionale, è sbarcato persino sul palco di San Remo: Sabrina Ferilli nel monologo al Festival ha parlato di questa discussa , che suggerisce graficamente sia l'idea di una «a» che di una «o». È stata, quella sanremese, solo una delle tante tappe del percorso dello schwa (dall'ebraico w che indica a sua volta un segno corrispondente a un suono neutro), il simbolo grafico adottato a salvaguardia della varietà delle identità di genere, dal momento che la lingua italiana è abituata da sempre a definire i termini collettivi e le pluralità miste contenenti uomini e donne, con il plurale maschile.

     

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    Sono numerose le istituzioni, gli editori, gli intellettuali che si sono proclamati a favore del morfema e che hanno tra gli obiettivi prioritari quello di sconfiggere il cosiddetto maschile «sovraesteso», di cancellare il «binarismo» linguistico della nostra cultura più tradizionale che ostacola la piena parità tra i sessi.

     

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    Il prossimo anno scolastico, dunque, lo inaugureremo con la didattica volta spiegare tutti gli impieghi del simbolo ? Il dibattito ferve nel mondo scientifico e sono numerosi i linguisti i quali sostengono che la toppa, cioè l'utilizzo dello schwa, è peggiore del buco e che finisce per non contrastare la cultura sessista: è la tesi del professor Andrea De Benedetti nel brillante saggio Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo (Einaudi, pp. 104, e. 12).

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    Lo studioso parte dal presupposto che nelle lingue, ma in particolare in quella italiana, esista un forte orientamento maschilista alimentato da modelli semantici discriminatori. Basta pensare a quello più ovvio: la parola uomo, ahi noi!, include pure le donne. E i nostri schemi mentali ci spingono a considerare come «brutte» e cacofoniche le parole «sindaca» o «ministra», anche se «a rigor di morfologia», ci spiega il linguista, «sono perfettamente formate». Le ghettizzazioni verbali sono molteplici. Bisognerebbe cominciare a pensare, osserva il saggista, a varare un vasto programma di insegnamento dal punto di vista della pronuncia orale.

    Infatti fino a oggi il morfema è stato impiegato soprattutto nei testi scritti.

     

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    L'utilizzo del simbolo rappresenta, comunque, veramente i diritti delle donne, delle persone transgender e la lotta al patriarcato? Facciamo un esempio. Se qualcuno si presentasse a una riunione di lavoro, «Sono Andrea, amministrator delegat» evidenzierebbe senza alcun dubbio «il tratto non binario» della propria identità, cioè sottolineerebbe la sua volontà di non riconoscersi né nel genere maschile né in quello femminile ostentando un elemento molto personale e privato non pertinente al contesto lavorativo.

     

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    «Non si è progressisti utilizzando soluzioni cervellotiche e poco maneggevoli», osserva De Benedetti. Le diseguaglianze, in realtà, risiedono nelle discriminazioni, nel gender gap, nei diritti negati e nel fatto che sono poche le donne in posizioni apicali nei luoghi di lavoro. Dobbiamo mobilitarci per eliminare tutto ciò che offende e limita la piena espressione dell'individuo. Ma lo schwa a questo scopo proprio non serve. 

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