Giulia Villoresi per “il Venerdì – la Repubblica”
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Abel Ferrara, 71 anni, regista di culto della scena indipendente americana, in piedi nella sua cucina parla del suo ultimo film, mentre noi, la metà dei suoi anni, ci dimentichiamo di offrirgli la nostra sedia. Ce ne dimentichiamo per un'ora e mezza. Tanto che alla fine sarà costretto a dirci: «Però così mi viene un colpo, bro'». Bro' sta per brother, fratello: ha iniziato a chiamarci così quando l'atmosfera si è scaldata. Il Maestro - qui all'Esquilino lo chiamano tutti così - parla americano con una lieve inflessione italiana, e non perché vive a Roma da vent' anni, ma perché è cresciuto tra gli italo-americani del Bronx.
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Per prima cosa ci ha preparato una moka con l'acqua minerale: un rituale quasi religioso, con picchi di violenza inaudita (la forza con cui maneggiava le tazzine faceva temere il peggio), e tanto magnetico da inchiodarci alla sedia. Anche i suoi film sono così. L'ultimo, Padre Pio, sarà presentato il 2 settembre alla Mostra del cinema di Venezia nella selezione ufficiale delle Giornate degli Autori.
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Qui l'eterna riflessione di Ferrara sui temi del peccato e della redenzione ha raggiunto la sua forma più esplicita: l'agiografia. Quella di un santo di cui si è detto di tutto (millantatore, fornicatore, iracondo, fascista, affarista), interpretato da un attore che ha combinato di tutto: Shia LaBeouf, 36 anni, arrestato almeno undici volte a partire dai nove, alle spalle un rehab e una conversione al cristianesimo (era ebreo), dopo un «viaggio spirituale» che ha avuto il suo culmine proprio in questo film. E si vede. Come in Pasolini (2014), che racconta le ultime 24 ore di PPP, anche qui Ferrara si è concentrato su un breve segmento storico: sono i fatti sanguinosi, e pressoché sconosciuti, avvenuti a San Giovanni Rotondo nell'ottobre del 1920, proprio mentre Padre Pio, appena fuori dal paese, combatteva (talvolta fisicamente) con Satana, ed elaborava la croce delle stimmate "definitive".
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Partiamo dall'eccidio di San Giovanni Rotondo.
«Un fatto storico di portata mondiale. E voi non ne sapete nulla. Nel 1920 in Italia ci sono state le prime elezioni vinte dalla sinistra. I socialisti hanno preso molti comuni. Ma a San Giovanni Rotondo, un paesino dominato da preti e proprietari terrieri, la destra ha negato il risultato delle votazioni. Una quarantina di persone si è radunata sotto il Comune per protestare. La tensione è salita. I carabinieri hanno sparato. Risultato: undici morti. Una fottuta strage. E voi non ne sapete nulla. Perché?».
Non lo so.
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«È la nascita del fascismo, cazzo! È la prima battaglia della Seconda guerra mondiale. È l'inizio di tutto. Ed è accaduto lì, a San Giovanni Rotondo, mentre Pio lottava col diavolo».
Nel 1961, ricostruendo l'eccidio, l'Avanti osservava che sarebbe sciocco immaginare Padre Pio come estraneo ai fatti, immerso esclusivamente nelle sue esperienze mistiche.
«Non me la bevo. Il monastero dei cappuccini era fuori dal paese. Neppure ci andavano, in paese. Ovviamente lui aveva un'influenza, ma non politica».
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Non politica?
«No, bro'. Era un'influenza spirituale. Perché lui vedeva tutte quelle dinamiche e sapeva a cosa avrebbero portato. Il diavolo gli parlava: "Pensi che gli ultimi cinque anni siano stati brutti? Vedrai i prossimi venti. Guerra. Spagnola. Ebrei gassati. Milioni e milioni di morti. Come pensi di fermarmi? Tornatene da mamma, cazzone!"».
Invece lui è rimasto.
«E ha costruito un ospedale. Un fottuto ospedale, dove non c'era neanche l'acqua! Un monaco tra i poveri che raccoglie 35 milioni di dollari».
Dollari di oscura provenienza, pare.
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«Pio sapeva smuovere le montagne».
Le è mai venuto il dubbio che questo carisma fosse un'emanazione dell'ego, più che dello spirito?
«La sua battaglia quotidiana era proprio questa: l'ego. Cos' era il diavolo, sennò? Nelle lettere lo dice. "Perché sto facendo tutto questo? per me o per Gesù Cristo?". Ma lui era soprattutto un grande confessore».
Cosa significa?
«Significa che fuori fanno quaranta gradi, e tu stai in un fottuto bugigattolo tutto il giorno ad ascoltare le sofferenze altrui. "I miei pomodori non crescono. Mia figlia non rimane incinta. Non ho soldi. Non ho fede. Mi scopo la moglie del mio amico". E tu li ascolti. Porti a tutti la parola di Dio. Poi gli porti un ospedale. Cos' è? Compassione? Miracolo?».
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Lei crede nei miracoli?
«Credo in quell'ospedale. Credo nella compassione. Ma non credo nei miracoli: sono buddista. Credo che le cose, semplicemente, accadono».
Allora che cos' erano le stimmate di Padre Pio?
«La sua risposta all'apocalisse che stava arrivando. Una risposta così profonda da far uscire il sangue. Le stimmate sono la sofferenza che attendeva tutti, che lui ha preso su di sé. Quante persone hanno detto: "Mi ha toccato, e sono cambiato"? Lui ha portato il miracolo tra la gente».
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Di nuovo il miracolo...
«Shia, per esempio, crede nei miracoli».
Ecco, Shia LaBeouf: perché ha scelto lui per interpretare Padre Pio?
«Qualcuno me l'ha presentato, abbiamo parlato e c'è stata una connessione. Al tempo lui stava affrontando un viaggio spirituale. Un viaggio nel quale è immerso ancora oggi. Lo stesso viaggio che sto facendo io».
Come si è preparato per il ruolo?
«Si è chiuso per due mesi in un convento di cappuccini fuori Los Angeles.
I frati lo hanno accettato, dandogli tutte le conoscenze di cui aveva bisogno.
Lui era già molto dentro alla questione della fede, e ci è entrato ancora di più».
Ha pensato di farsi monaco?
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«Questo devi chiederlo a lui. Ad ogni modo, i cappuccini del film non sono attori: sono monaci veri».
Hanno visto il film?
«Sì. E hanno detto che è un capolavoro. Tutti i fottuti cappuccini! Ecco la mia più grande felicità!».
La felicità: pensa di conoscerla meglio, da quando vive in Italia?
«Dieci anni fa ho passato quattro mesi in una comunità fuori Caserta e ho chiuso con droghe e alcol. Sono rinato lì. A trenta minuti dal luogo in cui era nato mio nonno, cioè Sarno. Ero molto legato a mio nonno. È grazie a lui che ho scoperto Padre Pio. Erano coetanei e conterranei. Lui emigrò negli Stati Uniti nel 1900 e se la cavò alla grande.
Non come gangster. Col duro lavoro. Però non imparò mai l'inglese».
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Come lei che non ha mai imparato l'italiano
«Beh, sai. Mia moglie è moldava. Parla moldavo».
Quindi lei parla moldavo?
«No. In realtà parlo a stento l'inglese. Ecco il problema: non ho mai imparato davvero l'inglese, quindi imparare altre lingue mi viene difficile».
Perché ha scelto l'Italia?
«Perché ero stanco di lottare per la mia libertà creativa. Quello che faccio, che per me è sacro, nel mio Paese non è rispettato. Lì il regista come autore di film ormai non esiste più. L'artista non conta un cazzo, conta il profitto. Qui invece c'è una legge che dice che nessuno può toccare il mio film. E non è solo una legge. È una filosofia di vita».
Cioè?
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«La vedi quella maniglia? Il tipo che l'ha fatta, cento anni fa, ci ha messo tempo e cura. A New York te la fanno in cinque minuti e non gliene frega un cazzo. Guarda il pavimento (marmette anni 20, ndr). Questo pavimento è come i miei film. Come il caffè. Il cibo. Non lo so cos' è. Cultura. Rispetto per l'arte. Quando hai una civiltà di tremila anni impari a rispettare certe cose».
Eppure, non tutti pensano che questa civiltà stia producendo arte vitale. Prendiamo il cinema: le piacciono i film italiani?
«Vabbè. C'è stato Berlusconi. I nuovi registi sono cresciuti con la sua tv, non con Rossellini e Antonioni».
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La maggior parte di quei registi conosce Rossellini e Antonioni.
«Non lo so. Garrone mi piace, per dire. Ma la verità è che non vedo film. Non li vedo perché li faccio e la sera voglio solo leggere un libro».
A che film lavora, adesso?
«Sto per partire per l'Ucraina: andiamo a girare un documentario».
Cosa ha in mente?
«Niente di preciso. Intanto partiamo da Kiev, il resto dipende».
Da cosa?
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«Da quanto sono coraggioso».
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