Francesco Rigatelli per “La Stampa”
Pol Antràs, economista di Harvard
«Non vedo tuttora chiari segnali di deglobalizzazione». Pol Antràs, 46 anni, economista di Harvard di origine spagnola, esperto di catene del valore e delle relazioni tra commercio, diseguaglianza e ridistrubuzione dei costi, porta al Festival dell'Economia di Torino la ventata di ottimismo dell'Ivy league, l'alta accademia americana.
Al Collegio Carlo Alberto, introdotto dal collega francese Thierry Verdier e dal presidente della Compagnia di San Paolo Francesco Profumo, teorizza la "slowbalization", ovvero un «rallentamento episodico della globalizzazione, dovuto a fattori certamente gravi eppure temporanei come la pandemia e l'invasione dell'Ucraina».
Slowbalisation
L'economista tira fuori i grafici per dare prospettiva storica al suo ragionamento. «Il Covid e la guerra sono shock, ma ci siamo già dimenticati la crisi finanziaria del 2008 dopo cui tutto è ripreso come prima. Anzi il tema della salute globale, al pari di quella del pianeta, sono buoni motivi per pensare a un mondo più connesso. Per arrivare a una vera deglobalizzazione inoltre bisognerebbe assistere a dei trasferimenti di aziende, che arriverebbero solo dopo shock persistenti. L'effetto finora invece è più che altro di incertezza nelle scelte dei manager. Come se si cercasse la voglia di tornare a guidare dopo un incidente stradale».
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La "slowbalization" è però inevitabile, riflette Antràs: «Dagli anni '80 all'inizio dei 2000 abbiamo assistito a uno sviluppo continuo del commercio internazionale. Non si può pensare che continuasse all'infinito. Quel periodo, che si potrebbe chiamare di "iperglobalizzazione", va studiato per poter accelerare rispetto alla fase attuale di "slowbalization"».
Tra le chiavi del motore globale, l'economista mette in luce «il progresso tecnologico, la liberalizzazione dei commerci e le politiche di apertura». In base all'analisi storica, Antràs considera favorevolmente l'impatto dell'innovazione sulla globalizzazione: «Tutti i cambiamenti hanno spinto in questa direzione e pure l'automazione non remerà contro, perché i robot non producono merci dal nulla». Neppure l'autoritarismo di Mosca e l'autogol dell'invasione dell'Ucraina causeranno danni rilevanti: «La Russia si è sparata nei piedi escludendosi dal mondo.
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Il Paese di Putin è una specie di stazione del gas, ma per il resto risulta irrilevante. E la posizione prudente della Cina dimostra ancora una volta che la globalizzazione proseguirà».
Per l'economista tra le maggiori spinte antagoniste della globalizzazione c'è però la sua cattiva fama: «La disuguaglianza prodotta può portare a desiderare un mondo più chiuso, dunque servono dei correttivi locali, un'economia aperta ma pure più giusta».
Ed è qui che la teoria di Antràs si salda con quella del filosofo politico Michael Sandel, 69 anni, anche lui professore ad Harvard, ieri in dialogo al Teatro Carignano con l'editore Giuseppe Laterza e tutta la platea, come usa fare in vere e proprie sedute di Filosofia collettiva disponibili su Youtube.
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Se il primo smitizza la deglobalizzazione il secondo riduce la meritocrazia a specchietto per le allodole: «Funziona solo se le condizioni di partenza sono veramente uguali, ma le nostre società sono imperfette. In Danimarca un povero può creare una famiglia ricca in due generazioni; in Usa, Regno Unito e Italia in cinque». Sandel coinvolge il pubblico con l'esempio del calciatore da 75 milioni di dollari l'anno Lionel Messi: li merita più di un insegnante o di un infermiere? «Serve una società non solo più meritocratica, ma più equa, che ridia dignità al lavoro e lo ricompensi. La meritocrazia spinge a pensare che siamo soli e tutto dipenda da noi, mentre viviamo in una comunità. Lo spirito di umiltà è ciò che serve per tornare a una vita pubblica meno polarizzata e più generosa».
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