DAGOREPORT – AVVISATE IL GOVERNO MELONI: I GRANDI FONDI INTERNAZIONALI SONO SULLA SOGLIA PER USCIRE…
Estratto dell'articolo di Lirio Abbate per www.repubblica.it
L’inchiesta che sta conducendo la procura di Caltanissetta ci riporta indietro di almeno trentadue anni e — prescrizione a parte — ricolloca tutto nel nido di vipere a cui aveva accennato Paolo Borsellino dopo l’uccisione di Giovanni Falcone. Rispedisce tutti indietro nel tempo e riscrive la storia dell’ufficio giudiziario palermitano che ha come spartiacque la notte del 19 luglio 1992, quando alcune ore dopo la strage di via d’Amelio veniva pensato e steso un documento contro l’allora procuratore Pietro Giammanco. Un atto di ribellione firmato da alcuni magistrati dell’ufficio di Palermo.
giovanni falcone paolo borsellino
Gli attentati mafiosi dell’estate del 1992 sono l’epifania per la magistratura italiana, soprattutto per quella palermitana. Fino ad allora comandava su tutto e su tutti il capo dei pm Giammanco, amico di molti politici democristiani, e nessuno dei magistrati si ribellava. E c’erano più fronti giudiziari opposti che si facevano la guerra per la carriera.
Nel 1989 Falcone diventa procuratore aggiunto. È stremato, fiaccato dalla congiura del “corvo” e dal fallito attentato all’Addaura che i suoi nemici, interni ed esterni, usano per screditarlo e isolarlo. Al Palazzo di Giustizia si ritrova solo. Da una parte Falcone, dall’altra Giammanco.
E qui entrano in scena anche gli “specialisti delle carte a posto”, qualificati nelle tecniche del sabotaggio e dell’insabbiamento con un uso chirurgico di norme, circolari e cavilli. Falcone protesta, ma ogni volta gli specialisti delle carte a posto hanno una giustificazione formalmente ineccepibile da opporgli. Giorno dopo giorno viene silenziosamente espulso dal Palazzo.
pietro giammanco paolo borsellino
Accerchiato e paralizzato, Falcone accetta la proposta di trasferirsi a Roma, al ministero di Grazia e giustizia. Ma dopo di lui l’obiettivo diventa il suo amico Paolo Borsellino, che lo aveva sostituito come procuratore aggiunto, ma è confinato alle indagini nella provincia di Trapani, e impedito a occuparsi della mafia palermitana.
Si ritrova più o meno nella stessa situazione in cui era Falcone, e quindi prova a evitare scontri frontali, aperti, portando avanti il suo lavoro nel modo migliore, creandosi una sua nicchia. Ma non è facile, e non sono molti quelli su cui può contare.
C’è un particolare che si ricollega a quella stagione raccontato da Antonio Di Pietro. Pochi anni fa rispondendo a una domanda di una giornalista, dice: «[…] Mani pulite, nasce come figlia di Mafia pulita. […] Raul Gardini non si suicida così, per disperazione, il 23 luglio 1993: si suicida perché sa che quella mattina, venendo da me, doveva fare il nome di Salvo Lima, che aveva ricevuto una parte della tangente Enimont da 150 miliardi di lire».
ANTONIO DI PIETRO CIRCONDATO DAI GIORNALISTI
Ecco la convergenza di interessi che lega protagonisti di primo piano del mondo dell’imprenditoria e della finanza e Cosa nostra su cui lavorano Falcone e Borsellino. Ma non c’è coesione nell’ufficio, il procuratore aggiunto scopre che vengono fatte attività investigative senza essere avvisato, o ancora, vengono prese decisioni per chiedere archiviazioni di inchieste senza essere informato. Un nido di vipere dirà.
giovanni falcone paolo borsellino
All’indomani del 19 luglio però, tutto cambia. Quasi tutti diventano “amici” di Paolo e di Giovanni. Si riaccreditano e riscrivono la storia come gli “eredi” di Falcone e Borsellino. Giuseppe Pignatone no, e lo spiega al Csm nell’audizione che ha fatto a Palermo dopo l’attentato. Lui rimane coerente con la sua storia di magistrato nella procura di Giammanco — che nel frattempo è deceduto senza mai essere stato sentito a verbale — sulla cui gestione delle inchieste indagano adesso i pm di Caltanissetta.
[…]
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