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    "LA PARTITA DEL DECENNIO" HA DIMOSTRATO TUTTO QUELLO CHE DOBBIAMO ANCORA IMPARARE IN ITALIA - "LA VERITÀ" SU CITY-REAL: "CON UN 4-3 SUL TABELLINO I TIFOSI DI JUVENTUS, MILAN E INTER AVREBBERO MASSACRATO NELL'ORDINE: IL PORTIERE EDERSON PER LE INCERTEZZE DIFENSIVE, I CENTRALI DEL REAL PER I BUCHI IN COPERTURA, IL FUNAMBOLO DEL CITY, MAHREZ, PER AVERE SBAGLIATO UN GOL E DUE SCELTE DECISIVE. LA CONFERMA È PUNTUALMENTE ARRIVATA A FINE PARTITA, QUANDO…"


     
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    Giorgio Gandola per “La Verità”

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    «Semplicemente folle». Suona meglio in inglese (Just crazy) il titolo de L'Équipe per celebrare la partita del decennio con quel 4-3 finale che ha lo stesso profumo della leggendaria Italia-Germania di 52 anni fa all'Azteca. Però la follia non basta a spiegare uno spettacolo assoluto, una congiunzione astrale non casuale ma fortemente voluta.

     

    «Manchester City e Real Madrid ci hanno fatto tornare bambini», ha commentato Gary Lineker per enfatizzare 90 minuti di coraggio e spettacolo, folate di vento e lanci di 40 metri (Kevin De Bruyne, Luka Modric), scatti da centista (Vinicius Jr, Phil Foden), dribbling micidiali (Riyad Mahrez), gol devastanti (Karim Benzema). È vero, siamo tornati bambini perché quella partita da antologia di Champions league l'abbiamo vista giocare all'oratorio.

     

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    «Per dare lezioni di calcio bisogna avere il cuore caldo, la testa fredda e sentirsi liberi», ripeteva Arrigo Sacchi prima delle sfide chiave del suo Milan mondiale. Liberi da tatticismi, da condizionamenti psicologici, dalla paura di sbagliare. Liberi di chiamare una ripartenza «contropiede» senza vergognarsi.

     

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    E farlo, ripartire in faccia all'avversario puntando la porta senza fermarsi, con un unico obiettivo: fare gol. Non fermarsi a ricominciare, non mantenere il possesso, non «ruminare calcio» come diceva Gianni Brera, non «entrare fra le linee» come se la volpe nel pollaio fosse l'unica tattica possibile per andare in porta.

     

    Carlo Ancelotti (più di Pep Guardiola) sa che una partita può cambiare anche tre volte in 90 minuti: perdere a Istanbul una finale che vinceva 3-0 all'intervallo è stato come andare all'università. Così ha giocato mezz' ora a difendersi, un'altra mezza in contropiede e poi liberi tutti, perché lo spettacolo arriva quando saltano le marcature, quando gli strateghi si addormentano e i fuoriclasse sono liberi e felici di inventare. Come facevano da ragazzini al campetto dell'oratorio.

     

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    A Kinshasa, il match di boxe più famoso della storia dello sport è diventato tale non quando Muhammad Alì e George Foreman si studiavano (questo avanzando e l'altro rimbalzando sulle corde), ma nelle due riprese in cui hanno cominciato a menarsi. Con classe, potenza, odio sportivo. Ma a menarsi. Congiunzione astrale voluta, cercata, aspettata. Poiché la bravura dei calciatori e il senso di libertà non bastano per superare la prigione delle regole, ecco l'altro motivo scatenante: l'abolizione del gol in trasferta valutato il doppio per decreto.

     

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    Sembrava una scelta astrusa, invece l'Uefa con una mossa ha fatto crollare il muro di Berlino aprendo allo spettacolo. Nessuno si è accontentato, a Manchester, perché nessuno poteva permettersi di farlo giocando con i codicilli. Non il Manchester che ha sempre cercato il gol in più per presentarsi al Bernabeu in vantaggio; non il Real che non avrebbe potuto speculare sulla splendida tibiata di Benzema (2-1).

     

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    Quella del gol doppio era una gabbia, un imbroglio, un emendamento piddino messo lì a depotenziare i sogni. «Vi siete divertiti, eh?», ha sorriso Ancelotti alla fine. È l'ultimo motivo per spiegare la partita del decennio: il divertimento. In campo tutti hanno dato ciò che avevano dentro senza pensare al domani, ma neppure alla giocata successiva dell'avversario.

     

    Ecco perché una sfida simile in Italia non sarebbe pensabile. Facendo la tara al tasso di classe in campo (da noi certi giocatori e certi stipendi non esistono), alla fine avrebbero avuto il sopravvento i critici con la gastrite permanente.

     

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    Con un 4-3 sul tabellino gli stessi tifosi di Juventus, Milan e Inter avrebbero massacrato nell'ordine: il portiere Ederson per le incertezze difensive («Mette ansia»), i centrali del Real Madrid per i buchi in copertura («troppo larghi, troppo lenti»), il funambolo del City, Mahrez, per avere sbagliato un gol e due scelte decisive. Processi, non applausi. La conferma è puntualmente arrivata a fine partita, quando i commenti illuminati della Cassazione pallonara si sono soffermati a lungo sulle difese colabrodo.

     

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    «Lasciateli liberi anche di sbagliare», era uso ripetere Ferruccio De Bortoli quando parlava dei suoi giornalisti migliori impegnati in un difficile reportage. Poi li avrebbe rimproverati lui faccia a faccia, ma niente condizionamenti. Traduzione calcistica: niente braccino. Lasciare libera una squadra di esprimersi significa limitarsi nell'imbavagliarla con i tatticismi, con le stucchevoli ripartenze dal basso così di moda in Italia, mentre lo stesso Guardiola che le ha inventate 15 anni fa, non le impone più.

     

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    Meglio un lancio lungo, meglio un break letale: due passaggi in campo aperto e gol. Si chiama contropiede, José Mourinho ha vinto un triplete cosi. Detto questo, nel chiuso dello spogliatoio, il guru spagnolo che giocava a scacchi a Battery Park con i vecchietti per studiare nuove mosse, sa che il primo tempo della doppia semifinale lo ha vinto Ancelotti, più bravo a gestire il punteggio e a dosare le forze dei blancos. Pur avendo a disposizione una squadra più forte, Guardiola rischia di andare a casa a Madrid, dove di solito conta anche l'arbitro. Non lo ammetterà mai, ma avrebbe preferito addormentare la partita piuttosto che tenere svegli - in orgasmo continuato - gli spettatori di un intero continente.

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