Malcom Pagani per ''il Fatto Quotidiano''
NINO LA ROCCA
Non è finita ai punti: "Ho vinto, ho perso, sono stato troppo buono e mi hanno preso per il culo in tanti". Nino La Rocca, ex pugile, vorrebbe ancora un ring a 56 anni: "Per combattere e dimostrare a tutti quelli che mi hanno rovinato la carriera che quel soprannome non era immeritato".
In America scrissero che La Rocca era "il Muhammad Ali italiano" e la suggestione, animata da cinquanta successi consecutivi, prese forma insieme alla fama, ai soldi, ai contratti, alle copertine e agli inviti di un favoloso decennio di boxe, ascese e cadute.
All' inizio degli 80, Nino si arrampicò in cima alla vetta e poi rotolò a valle ancor più rapidamente. Prima gli incontri al Caesars Palace e al Madison Square Garden, le notti da dividere con Marvin Hagler, gli abbracci al Quirinale con Sandro Pertini: "Ti aspetto per darti la cittadinanza" e i duetti televisivi con Raffaella Carrà: "Campione d' Europa dei pesi Welter ed essere umano veramente straordinario, eccoti qui Nino, benvenuto, ti vogliamo veramente molto bene". Poi l' oblio.
La mancata conquista di un titolo mondiale lungamente inseguito e svanito con Donald Curry in una notte monegasca del 1984: "Rimandando la sfida con mille scuse mi fecero attendere 17 mesi. Un periodo lunghissimo in cui mi preparai vanamente. Quando dopo quasi due anni arrivai all' incontro ci arrivai svuotato, spento e distrutto".
NINO LA ROCCA
Nino La Rocca non danza più, ma sorride esattamente come ieri. Ride e dice cose amarissime. Dice che c' è stato un momento in cui, ancora giovane, tentò di uccidersi dopo un matrimonio sbagliato: "Correndo ubriaco nella notte tra Genova e Montecatini". Dice che non crede più a niente e a nessuno: "Se non in Dio".
Dice che il domani, comunque vada, sarà altrove: "Sono deluso. In Italia ce la fanno solo millantatori, ruffiani e leccapiedi. Io i piedi non li ho mai leccati. Li ho fatti camminare. Sono venuto dall' Africa scalzo e scalzo me ne andrò per tornare dove sono nato".
Nell' attesa, La Rocca vive all' Olgiata, verde comprensorio in bilico tra le atmosfere descritte da Piperno e Ammaniti e la soporosa quiete di Casal Palocco deplorata da Moretti in Caro Diario: "Passando accanto a queste case sento un odore di tute indossate al posto dei vestiti, un odore di videocassette, cani in giardino a far la guardia e pizze già pronte dentro scatole di cartone". Un posto che a Nino La Rocca sta benissimo.
NINO LA ROCCA PERTINI
Pensa a un' autobiografia, lavora a un film sulla sua vita, insegna saltuariamente boxe in qualche palestra di Roma Nord. Divide le giornate con Valentina e con il suo terzo figlio che ha due anni e delle corde di un quadrato in cui come disse Nino Benvenuti: "È meglio dare che ricevere" non sa nulla. La Rocca si allena ogni giorno e conserva l' asciuttezza di chi coltiva un sogno fuori tempo massimo.
Un 'diretto' che gli permetta di riscrivere la storia: "Come fecero in tarda età sia Archie Moore che George Foreman".
Davvero vorrebbe tornare a combattere?
Io vorrei, ma la boxe è finita. Non c' è più il pugilato e non esistono più i pugili disposti al sacrificio.
I limiti d' età previsti dalla Federazione non le consentono più di salire sul ring.
Ma io sto bene. Mi alleno, spero, non mi arrendo e credo in Dio. È Dio che fa succedere le cose. È Dio che dà forma all' impossibile.
Cheid Tijani Sidibe, alias Nino La Rocca, musulmano.
Sono nato in Mauritania. Figlio di un generale maliano dell' Esercito francese e di una siciliana. Non possedevo niente. Avere fede è stata una gran consolazione.
Eravate poveri?
Poverissimi. Fino ai tredici anni ho vissuto in Marocco per poi emigrare in Francia cercando fortuna all' ombra di mio zio. Sono stati anni difficili. Anni di privazioni.
Un' adolescenza senza soldi e senza documenti. Hassan II era un sovrano severo e aveva una polizia a sua immagine e somiglianza. Ero mal visto. Parlavo arabo. Essere fermati e finire direttamente in galera era la regola. Mi è successo, posso raccontarlo.
NINO LA ROCCA 3
Poi emigrò in Francia.
Mi aiutò il fratello di mia madre. Procurò i documenti per me e per i miei fratelli gemelli. Si chiamava Nino La Rocca, proprio come ho deciso di chiamarmi io. A Parigi dividevo una stanza con un vagabondo di nome Robert. C' era un solo letto. Ci alternavamo.
Una notte sul pavimento e una sul letto.
Come divenne pugile?
Andai a bussare alla porta del più grande manager di boxe francese dell' epoca. Fui sfacciato: 'Sarò un campione, creda in me'. Avevo fame e lo guardai con una disperazione che gli suggerì di darmi retta. Iniziai a frequentare una palestra controllata da lui.
Mi allenavo, facevo da sparring partner, guadagnavo 5 franchi al giorno. Dopo un paio d' anni, improvvisamente, mi propose il grande salto: 'C' è una sfida con Jean-Paul Coppyn, il campione di Parigi, tra 48 ore. Il pugile che avrebbe dovuto combattere si è infortunato, devi subentrare tu'.
E lei accettò.
Gli dovevo dei soldi e della gratitudine. Affitto, autobus, colazioni. Pagava tutto lui.
Salii sul ring e l' avversario andò giù dopo due colpi. K.O. alla prima ripresa. Non vidi un franco quella volta.
NINO LA ROCCA 1
Ma non si fermò più.
Vinsi un altro incontro, ripagai il debito e cercai di fuggire in fretta dalle precarietà francesi. Rodolfo Sabbatini lo incontrai a Montecarlo. Un incontro che mi cambiò carriera, vita e prospettiva.
Sabbatini, ex giornalista di Paese Sera dalla voce cavernosa, era diventato un promoter capace di organizzare più di cento titoli europei e quaranta mondiali.
Rodolfo organizzava incontri in America, Argentina e Inghilterra. Girava il mondo con il suo inglese impastato di romanesco e parlava da padre e da fratello maggiore a gente come Hagler e Monzón. Aveva inventato dal nulla un colosso come Bob Arum, ex avvocato d' affari di New York trasformato in promoter onnipotente.
Aveva capito che lo spettacolo è parte dello sport, ma che senza considerare la fragilità del pugile e senza proteggere la sua interiorità, la boxe si sarebbe sgonfiata senza lasciare traccia. I pugili erano prima di tutto uomini. Rodolfo lo sapeva. Aveva fiuto, umanità, grande capacità imprenditoriale. Lo incontrai con il mio misero bottino.
Due sole vittorie.
Sabbatini la ascoltò?
Avevo dormito in spiaggia. Ero stravolto. Lui pulito, profumato, impeccabile: 'Ti mando a Bogliasco da Rocco Agostino, crescerai'.
NINO LA ROCCA 2
Rocco Agostino: quattromila incontri all' angolo, mentore di Massimiliano Duran, Patrizio Oliva, Bruno Arcari.
Rocco Agostino è la persona che più di ogni altra mi ha aiutato nella boxe. È stato come un padre. Mi accolse in Liguria per formarmi. Avevo 17 anni. Dormivo a Villa Flora, in pensione e la sera invece di uscire con le ragazze parlavo con le vecchiette sedute davanti alla tv.
Una vita noiosa?
Mi svegliavo alle 5 di mattina, passava a prendermi un autista e mi portava a correre per ore in un campo come un cavallo. Tornavo per la doccia, mangiavo, dormivo e poi raggiungevo la palestra dove mi allenavo al sacco fino a sera. Non era noiosa la vita, non esisteva proprio. Rocco controllava tutto. Il cibo, gli orari, i progressi. A volte per la monotonia sembrava di essere in galera.
Le è mancata la sua giovinezza?
Volevo vivere e crearmi una famiglia. Patrizio Oliva si allenava, ma poi tornava a casa per abbracciare le persone a cui voleva bene. Io ero solo. Figlio di un padre che era sparito presto e che non mi sono mai sentito di chiamare 'papà' e di una madre che non vedevo mai.
Agostino non le bastava?
Come avrebbe potuto bastarmi? Si viaggiava in continuazione da un posto all' altro, senza punti fermi, di match in match. Ero sempre sul ring, con pochissimo tempo per chiedermi come provare a essere felice.
MUHAMMAD ALI
Con Rocco Agostino c' era anche Bruno Arcari, il più grande pugile italiano del dopoguerra, più di Benvenuti, più di chiunque altro. Arcari era un ciociaro emigrato in Liguria. Un timidissimo burbero di poche parole. Abbiamo diviso per anni lo spogliatoio. Lo salutavo ogni mattina: 'Buongiorno Bruno' e dall' altra parte, al massimo, un cenno del capo.
Con la supervisione di Rocco Agostino arrivò a disputare il titolo mondiale con Curry a Montecarlo nel 1984.
Curry era un talento, ma come le ho detto prima, l' incontro venne rimandato in continuazione e ci arrivai in penose condizioni psicologiche. Volevo vincere il Mondiale a tutti i costi, ma a nessuno si può chiedere di essere nello stesso stato di tensione per quasi due anni. Infatti crollai e in un certo senso fu liberatorio.
Dopo la sconfitta con Curry cosa accadde?
Mi persi. E mi gettai nelle braccia della prima donna che incontrai.
MANUELA FALORNI
Manuela Falorni, poi diventata notissima pornostar con il nome d' arte di "Venere Bianca". All' epoca faceva soltanto la modella, di quello che ha fatto dopo non mi importa niente. È stato il più grande errore della mia vita quel matrimonio. La sposai dopo neanche un mese che la conoscevo. In una chiesa cattolica, da musulmano praticante. Le ho dato tutto. E lei tutto mi ha fatto fuori.
Avete avuto un figlio.
Antonio. Lo vedo spesso, con lui ho un ottimo rapporto. Di lei non voglio parlare. Non voglio farle pubblicità. Lei con il mio nome non ha fatto altro per tutta la sua vita.
Andaste a vivere insieme a Montecatini.
Spesi per la nostra casa più di quanto non avessi mai guadagnato, quasi 800 milioni di lire. Gliene intestai metà. Un giorno rientrai e scoprii che era scappata con mio figlio, a Viareggio. Mi cadde il mondo addosso.
In seguito sua moglie la accusò di maltrattamenti.
Balle totali, menzogne, bugie. Doveva difendersi e inventò una storia. Sono stato molto triste in quel periodo. Mi sono sentito solo. Ho cercato la morte. Mi ubriacavo e mi sballavo, poi con una vecchia Volvo mi lanciavo di notte in autostrada. La casa di Montecatini era diventata una comune.
nino la rocca
Le iene, i falsi amici e gli approfittatori cominciarono a occuparla, a uscire e a entrare quando volevano, a banchettare con i miei soldi. Ero debole. Bevevo come un disgraziato e ogni settimana andavo a Genova per ritirare dieci milioni in banca. Giravo la macchina, tornavo in Toscana e mantenevo decine di persone. Poi i soldi finirono e da un momento all' altro sparirono anche le persone.
Nonostante avesse perso l' assalto al titolo mondiale, nel 1989 riuscì a conquistare quello europeo dei Welter battendo il britannico Laing.
Tenni il titolo per pochi mesi, dall' aprile di quell' anno fino al 30 dicembre. Persi ai punti con Fernandez e con quel verdetto finì anche la mia carriera. Rocco Agostino mi mollò per Patrizio Oliva. Patrizio era salito a peso Welter e bisognava sacrificare qualcuno nella stessa categoria.
Chi sacrificarono? Me. Ci rimasi malissimo. Salii sul ring un' ultima volta, per il titolo internazionale W.B.C. per i pesi Welter nel 1990. Un incontro che non sapevo neanche cosa avesse esattamente in palio. Davanti avevo un sudamericano che picchiava come un fabbro. Presi un destro alla testa e andai all' angolo. Mi girava tutto intorno.
Parlai con Arcari: 'Ma chi è questo?' chiesi. 'È uno che mena forte' mi disse. Per l' incontro Rocco Agostino mi aveva promesso 10 milioni di lire: 'Se lo batti te li do sull' unghia'.
Ma lei non vinse.
Non ce la feci, provai ad abbracciare l' avversario più che potevo, a tenerlo lontano per recuperare forze e convinzione. Si avvicinò l' arbitro minaccioso: 'Se continui ad abbracciarlo ti squalifico'. 'E squalificami' gli dissi, 'tanto sono nauseato, non me ne frega più niente e non ce la faccio più'. Da quel giorno dissi basta.
Nel '94 però provò a tornare sul ring.
In Francia e in Belgio, ma non ebbi il nullaosta. Tra Federazioni non si mordono e io a quella italiana non sono mai stato simpatico.
Perché?
Perché parlavo troppo e dicevo cose che non stavano bene in bocca a uno sportivo.
Mi hanno chiuso la carriera in anticipo questi signori. Non li perdono.
Diceva delle cose che non stavano bene in bocca a uno sportivo.
La mia vita spericolata non era un manifesto da attaccare sui muri. Ho fatto molte cazzate, il peccato più grande, quello inaccettabile per la pubblica morale è stato ammetterle. Una volta che hai detto la verità sei fuori. Prenda la federazione: ha fatto e fa lavorare Oliva, Stecca e tutti gli altri ex, ma a me non ha mai offerto una sola possibilità.
Lei le ha chieste?
I pugili non servono. I pugili devono essere suonati, dimenticati, lasciati ai margini a parlare da soli contro un muro. Volevo lavorare. Ho chiesto aiuto a tutti. Ho provato anche con la politica, ma non c' è stato verso.
Nomi?
Da Malagò a Di Pietro, da Fini a Berlusconi, c' è solo l' imbarazzo della scelta. Malagò mi ha ricevuto, mi ha detto 'hai la mia parola, ti aiuterò' e poi mi ha liquidato. Fini mi ha preso per il culo. Di Pietro mi ha portato in giro come una reliquia. Berlusconi mi ha detto 'ho cercato, ma non c' è stato niente da fare'. Casini mi aveva anche candidato alle comunali di Roma. Mario Baccini mi fece vedere i depliant.
Erano assurdi. C' era una scritta sulla mia foto: 'Nino e basta'. 'Nino chi? - chiesi -: Nino Manfredi o Nino D' Angelo?'. Destra, sinistra, Non si salva nessuno. Dovrebbero andare tutti all' inferno.
NINO LA ROCCA
Nel '98 e nel '99 si incatenò prima davanti a Palazzo Chigi poi davanti al Quirinale.
La prima volta per chiedere un lavoro, la seconda per protestare contro la bocciatura per prendere il patentino di maestro di boxe. Secondo gli esaminatori, l' unico pugile italiano citato da Tyson nella sua biografia, uno che aveva combattuto al Madison Square Garden non era in grado di insegnare boxe.
Avevano torto?
Torto marcio. Non ho saputo gestire il denaro e ho fatto tanti errori, ma il talento ce l' avevo.
Era un talento grande?
Non ti chiamano Muhammad Ali per caso.