Giusi Fasano per il “Corriere della Sera”
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«Mio figlio è morto dieci anni fa. Le sembra normale che a dieci anni dai fatti e a cinque dall'inizio del processo non siamo arrivati nemmeno a una sentenza di primo grado? Io non ne sapevo niente della giustizia prima che Alessandro morisse, adesso so che finire nell'aula di un tribunale è un po' come giocare al Lotto. Ti devi affidare alla fortuna. E noi finora non siamo stati fortunati».
Marisa Toraldo è «la mamma di Ale» e da dieci anni a questa parte è come se fare «la mamma di Ale» fosse il suo mestiere. Una specie di lavoro «arrivare alla verità e andare un giorno sulla tomba di mio figlio a dirgli che ha avuto giustizia e può finalmente riposare in pace». Alessandro Nasta, suo figlio, morì a 29 anni il 24 maggio del 2012 mentre era in servizio sull'Amerigo Vespucci, nave scuola e veliero più vecchio della marina militare.
ALESSANDRO NASTA
Lui era un sottufficiale - nocchiere di terza classe - e quel giorno la Vespucci navigava 40 miglia a Nord di Civitavecchia. Alessandro, nato a cresciuto Brindisi, aveva cominciato a lavorare alle quattro del mattino e quand'era quasi ora di smontare chiesero a lui e alla sua squadra di affiancare quella di turno sull'albero maestro per chiudere le vele. La richiesta, dicono alcuni suoi compagni, era su base volontaria.
L'albero maestro è il più alto, 54 metri. Lui salì, fece quello che doveva fare e cominciò a scendere nel modo in cui aveva sempre fatto e come voleva la tradizione marinaresca, cioè senza imbragature anti-caduta. E questo nonostante fossero in vigore ormai da due anni (per i militari come per i civili) le norme stabilite dal Testo unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro. A essere più precisi: lui era imbragato, sì, ma dalla cosiddetta «cintura di posizionamento», che veniva ancorata alla struttura (con un moschettone a vite) soltanto per il tempo in cui era necessario usare entrambe le mani.
ALESSANDRO NASTA
Non per salire e per scendere. Quella mattina il nocchiere finì le operazioni di chiusura delle vele e scese fino alla coffa, una sorta di piattaforma a 15 metri di altezza. Il collega che scendeva dopo di lui sentì una «forte vibrazione», guardò in basso e lo vide cadere; né un lamento, né un urlo né il tentativo di aggrapparsi a qualcosa. Una marionetta senza fili. Morì sull'elicottero che lo portava in ospedale.
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Da quel giorno in poi sua madre ha studiato tutto su norme di sicurezza e corsi di formazione che i marinai erano e sono tenuti a seguire, ha scovato in Rete filmati sugli uomini della Vespucci in azione prima e dopo la morte del figlio, ha imparato programmi informatici per trattare video che ora sono agli atti... Dopo il caso Nasta la Marina ha adottato, in sostanza, misure anti-caduta che potevano salvarlo se fossero state applicate quel 24 maggio 2012. E questo indipendentemente dal motivo della caduta.
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«Io cerco di onorare la memoria di mio figlio», dice sua madre. «Non voglio un colpevole a ogni costo, vorrei solo che mi dicessero: sì, gli imputati sono responsabili oppure no, le responsabilità sono altrove. Basta che lo facciano, il tempo è diventato stretto». Gli imputati sono l'allora comandante della Vespucci, Domenico La Faia, e tre Capi di Stato Maggiore che erano ai vertici della Marina: gli ammiragli Giuseppe De Giorgi, Bruno Branciforte e Luigi Binelli Mantelli. Dalla prima udienza a oggi il processo è passato di mano quattro volte. Il quarto giudice l'altro
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giorno ha ammesso nuove prove e si è riservato di decidere (il 9 giugno) se rifare daccapo l'attività processuale. E quando la madre di Alessandro dice che «il tempo è stretto» parla della possibilità, non più tanto remota, della prescrizione. La sua avvocata, Alessandra Guarini, lo dice con parole giuridiche: «Il reato di cui parliamo è omicidio colposo, aggravato dalle violazioni delle norme antinfortunistiche. I termini della prescrizione in questo caso raddoppiano, quindi sono 17 anni e mezzo. Ma se pensa che siamo già al decimo senza neanche la prima sentenza...».
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