Marco Giusti per Dagospia
luigi lo cascio nei panni di braibanti
“Ah, noi… birbanti… Braibanti…”. Così Paolo Poli, travestito da Rita da Cascia, con tanto di parrucca con i treccioni, accennava a teatro negli anni '60 a un caso celebre e doloroso come quello di Aldo Braibanti che ora, sessant’anni o quasi dopo Gianni Amelio porta sullo schermo con “Il signore delle formiche” a risarcimento di una tragedia tutta italiana e di un processo farsa vergognoso che vedeva il professor Braibanti assurdamente accusato di plagio seconda una legge fascista che copriva indecorosamente la presenza dell’omosessualità nel nostro paese.
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E quindi non prevedeva un processo e una punizione, come accadeva in Inghilterra, per l’omosessualità dichiarata. Nel caso specifico la “colpa” di Braibanti era quella di aver plagiato un suo giovane allievo, col quale viveva a Roma, ripreso prontamente dalla famiglia e massacrato con elettroshock, mentre a lui la nostra legge, dopo quattro anni di processi, sentenziò ben nove anni di carcere, che diventarono sei in appello e vennero poi ridotti a due per meriti partigiani.
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Film difficile da fare, ancor più da scrivere presumo, non tanto per la storia in sé, quanto per la ricostruzione esatta del personaggio di Aldo Braibanti e il suo complesso ruolo nella cultura italiana del tempo. Studioso di insetti, poeta, commediografo, cineasta, scrittore, amico di Sylvano Bussotti, che nel film diventa un certo “Vanni Castellani”, di Alberto Moravia, di Alberto Grifi, di Carmelo Bene, legato a esperimenti teatrali come quelli del Living, attivissimo inchiestista politoc su Quaderni Piacentini, cosa che qui scompare del tutto, ma anche provinciale a Roma come già lo era stato Pasolini.
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Luigi Lo Cascio ne dà un ritratto preciso di intellettuale chiuso in se stesso, quasi in una torre di superiorità, cosciente della sua intelligenza ma che sentenzia un filo troppo. Ma forse, a ben ricordare, allora, gli intellettuali isentenziavano tutti un po' troppo, con le frasi a effetto, cosa che faceva davvero effetto sui giovani del tempo. E, parlo per esperienza. L'idea di plagio altro non era, in fondo, che il fascino un bel po' predatorio che tanti di questi intellettuali spargevano fra i loro giovani amici e amiche. Pratica diffusa al di là dell'essere omo o etero.
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Anche perché la differenza tra gli omosessuali alla Bussotti o alla Paolo Poli, più esibiti, più chiari, e alla Braibanti, più chiusi, in giacca e cravatta, era piuttosto chiara. Anche se la giacca e la cravatta, a teatro come alla Rai come nei giornali anche non di partito, mascheravano parecchio. Certo, la grande ventata libertaria sessantottina avrebbe cambiato un po’ le cose, ma nella prima metà degli anni ’60 non era facile capire come muoversi e cosa aspettarsi in ambienti non così protetti come quelli del teatro d’avanguardia o del cinema di Pasolini-Visconti-Bolognini o delle piccole comunità gay a Roma.
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E comunque, e in questo il film di Amelio ci prende, pure un partito come il PCI o un giornale come “l’Unità”, aveva un problema di evidente imbarazzo a difendere Braibanti omosessuale partigiano e dirigente di partito. Anche se la ricostruzione della redazione del giornale non mi sembra riuscita. Detto questo “Il signore delle formiche” ci racconta, con qualche omissis e qualche nome cambiato una storia che andava raccontata trenta-quarant’anni fa, ma siamo fatti così, arriviamo sempre in ritardo, colpa dei produttori, si dirà, ma anche colpa di una certa codardia nel tentare imprese difficili da raccontare e da far digerire nel sistema maschilista e patriarcale della cultura italiana.
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Del resto siamo ancora impegnati sul caso Moro e chissà quando spiegheremo al cinema il ritorno del fascio-sovranismo di meloni e Salvini. Uno sguardo meno lontano dalla storia, avrebbe potuto coprire qualche ingenuità. O spingere su qualche bertoluccismo in più, che da Amelio magari avremmo gradito, specialmente nella parte emiliana, dove brilla pur senza dire una battuta il Francesco Barilli protagonista di “Prima della rivoluzione” o la Adua di Gina Rovere che ci rimanda invece all’Adua di Pietrangeli, e dove si muove con grande attenzione e partecipazione il Braibanti di Lo Cascio, che poteva diventare un po’ più personaggio bertolucciano alla Gianni Amico.
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Personaggi, ahimé, che da anni non esistono più, come non esiste più Gianni Amico e tutto quel mondo di intellettuali di provincia che fecero la nostra nouvelle vague e la nostra rivoluzione, anche teatrale (come Bussotti) . Non mi piace tanto, confesso, una sorta di messa in scena col personaggio che apre bocca come fossimo in uno sceneggiato anni ’60, che forse è una cosa voluta da Amelio per riportarci a quel mondo.
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E trovo estremamente curioso il momento, importante nella storia, della vecchia madre di Braibanti che legge sotto i portici della sua città la lettera del figlio, finalmente un editore gli pubblicherà un libro, mentre la macchina da presa scopre la scritta terribile ma anche un po’ comica “la casa del culatòn”, che fa un po’ troppo Nando Cicero e che sembra assolutamente voluto. Un gesto di volgarizzazione di una storia che nella realtà comunque ne ebbe parecchia.
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Strutturato in due parti, la storia d’amore e la fuga a Roma e il terribile processo-gogna, che è ricostruito fedelmente dagli atti e dalle cronache del tempo, il film è pieno di figure interessanti, a cominciare dal giornalista comunista Elio Germano, l’unico che prende davvero a cuore la vicenda, a sua cugina Sara Serraiocco, dall’esordiente Leonardo Maltese, che ritroveremo nel nuovo film di Marco Bellocchio, a Valerio Binasco. Forse, ripeto, avremmo voluto qualche bertolucciata in più, qualche travelling, un po’ più cinema rispetto alla storia. Ma forse la storia, stavolta, era la più importante da raccontare.
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