Marco Giusti per Dagospia
michelangelo frammartino
Il buco del titolo del nuovo, complesso film di Michelangelo Frammartino, "Il buco", appunto, secondo film italiano in concorso presentato oggi, non è affatto un buco metaforico. Ma un vero e proprio buco che porta a una delle grotte più profonde del mondo, la terza, ben 689 metri di profondità, che vennero calcolati da un gruppo di speleologi italiani nel 1961 in quel di Calabria, a Bifurto.
Di metaforico c’è però che mentre negli stessi anni si davano vita a elevazioni monumentali, come i 137 metri verso l’alto del Pirellone di Gio Ponti, come ben testimonia il servizio iniziale in bianco e nero di Giulio Macchi ideatore del celebre programma della gloriosa prima Rai “Orizzonti della scienza e della tecnica”, e mentre il boom economico italiana ci mostrava in tv le lunghe gambe delle gemelle Kessler, altra verticalità, i giovani speleologi si armavano per misurare, verso il basso, le profondità più vaste racchiuse nel Sud non così toccato dal boom del Nord.
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Come se studiando il vuoto si potesse studiare qualcosa di antichissimo, quasi preistorico del nostro paese. Gli speleologi misuravano centimetro per centimetro e giocavano addirittura a pallone tirandolo da una parte all’altra del buco, mentre un altro disegnava la forma della voragine. Fino alla fine. Tutto questo è raccontato, nel film ideato da Frammartino, solo con un semplice montaggio in parallelo con la vecchiaia e il crollo fisico di un vecchio pastore calabrese, depositario di una qualche lontana verità, e la fine del buco.
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Ma non ha un vero e proprio significato simbolico. E anche se lo ha, conta relativamente. Perché tutta la complessità del film sta infatti nella ricostruzione della missione in verticale negli anni ’60 armati di poco e nulla, dentro il buco, meraviglioso e intatto, e nella messa in scena della vastità della caduta con riprese di gran classe di Renato Berta e il rumore della natura che circonda i pastori e gli scienziati.
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Non per tutti, evidentemente, magari con qualche desiderio in eccesso di trovare l'inquadratura giusta, l’effetto visivo perfetto, la metafora che vada bene, è un film che può non piacere per la mancanza di narrativa, il massimo dei dialoghi dei giovani speleologi si risolve in una serie di “Oh!... Oh!”, per non parlare dei dialoghi dei rudi pastori, ma è innegabile la passione di Frammartino e della sua crew nel voler portare a termine la missione.
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Alla fine, però, oltre alla meraviglia del buco ripreso proprio nella sua brutale potenza sia al di dentro che al di fuori, sembra una ferita della terra, quel che ci colpisce è il meraviglioso servizio di Giulio Macchi che vola in alto sul Pirellone nel 1962 citando la battuta di un pulitore di finestre di grattacieli, che si ferma spesso per vedere la gente che lavora all’interno. Come se il suo, da fuori, non fosse un lavoro.
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