Marco Giusti per Dagospia
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Più che possibile che questa bellissima, affascinante e innovativa opera prima di fiction della documentarista Alice Diop, francese ma di origini senegalesi, “Saint Omer”, ovviamente in concorso, possa avere lo stesso effetto dirompente su una giuria attenta alle tematiche femminili che ebbe "L'événement" di Audrey Diwan.
Film forse più dritto, una storia di aborto, ma senza le complessità legate all’immigrazione, le due giovani protagoniste sono entrambi di origini senegalesi, e al rapporto stretto con la cultura anche magica del proprio paese e quella della vecchia Europa che ha accolto loro e le loro famiglie. Se ne potrà parlare per ore.
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Tutto si apre col corso che la scrittrice Rama, interpretata da Kayije Kagame, tiene su Marguerite Duras a partire da un’opera famosa come il testo di “Hiroshima mon amour”, dove la protagonista, Emmanuelle Riva, ricorda la violenza subita a Nanterre alla fine della guerra.
E solo la scrittura poetica trasformerà violenza e dolore nella costruzione di una eroina letteraria. Preparandosi a scrivere un nuovo libro, dedicato a una Medea moderna, Rama si sposta a Saint Omer per seguire il processo a una giovane senegalese, Laurence Coly, interpretata da Guslagie Malanda, che ha volutamente lasciato morire per annegamento la sua bimba di quindici mesi a Berck-sur-Mer.
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Perché lo ha fatto? Laurence ha studiato filosofia in Francia, è esperta di Wittgenstein, parla un linguaggio di alto livello, come può aver pensato che la nascita di una bambina le abbia portato il malocchio, estirpabile solo con la sua morte? Quello che seguiamo è il terribile processo alla ragazza, che non sa spiegare lei stessa la sua azione e anche lei cerca una risposta che non può avere razionalmente. Rama ne è non solo affascinata, ma piano piano si identifica in lei e la cosa si complica essendo lei stessa incinta, come nota da subita la madre di Laurence.
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E’ questa commistione continua di civiltà diverse, di tragedia antica che ci portiamo dentro, di ragionamenti filosofici alternati alla dura realtà dei fatti, di flusso di conoscenza quasi tangibile tra madri e figlie, anche Rama ha una madre alla quale non ha detto di essere incinta, porta il film a interrogarsi in maniera sia documentaristica che letteraria non solo sull’azione in sé della giovane madre che ha compiuto lo stesso atto terribile di Medea, ma su tutto ciò che domina nel profondo le nostre scelte e la nostra vita di figli e pronipoti di tutte le Medee che ci hanno preceduto.
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“Medea”, diceva Pasolini, qui giustamente citato, parlando del suo film con la Callas, “è l’eroina di un mondo arcaico religioso, Giasone di un mondo razionale, moderno, il loro amore rappresenta il conflitto tra questi due mondi”. In qualche modo, privato di un Giasone, la Medea di Laurence, la madre infanticida, arriva a questo conflitto facendo convivere in sé i due mondi, spostandosi dall’Africa in Europa come hanno fatto e stanno facendo tanti africani.
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Non a casa si professa “razionalista” e seguita a dire che la morte della bambina è opera di qualcosa di esterno. Film ideato e messo in scena interamente da ragazze, le cosceneggiatrici della Diop sono Amrita David e Marie Ndiaye, la direttrice della fotografia è Claire Mathon, porta a questo festival una grande freschezza e alza decisamente il livello del concorso. E apre, dopo “Atlantique” di Mati Diop, una strada luminosa al nuovo cinema franco-africano o franco-senegalese di questo millennio.
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