Estratto dell’articolo di Francesco Bei per la Repubblica
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“Ci sono i fantini e poi c’è lui, un semidio. Ed è italiano”. Per una volta l’enfasi dello speaker di Capannelle nel 140esimo Derby che Lanfranco “Frankie” Dettori ha corso domenica 21 a Roma non era eccessiva. Perché Dettori, italiano ma trapiantato da decenni in Inghilterra, ha vinto al galoppo tutto quello che c’era da vincere. E l’ha rivinto, e ancora e ancora. Nell’anno in cui ha deciso di lasciare le gare, basta ricordare le sei volte in cui ha tagliato in testa il traguardo all’Arc de Triomphe di Parigi (nessuno come lui).
I primi ricordi legati al cavallo?
“Mi ricordo quando ero un bambino che mi mettevano sopra i cavalli, i purosangue della scuderia del mitico Carlo d'Alessio, la famosa Cieffedi. Erano cavalli che avevano finito di correre e il pomeriggio, stanchi, venivano passeggiati per farli raffreddare”.
Paura lassù?
“Altroché, erano così alti! Pensavo: madonna mia, chissà che mi succede se cado!”
Lei è figlio d’arte, Gianfranco Dettori è stato un grande protagonista dell'ippica italiana. Che padre era?
“Severo, ma era la sua generazione, i padri del dopoguerra erano ancora più severi. Poi, essendo sardo, oltre a essere duro era anche un po’ testardo. Quando uno è giovane pensa che tutti i padri siano uguali al tuo, poi capisci che ci sono quelli severi e quelli più dolci, ce ne sono di tutti i tipi”.
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Lei che padre è?
“L’opposto del mio. In famiglia sono il “poliziotto buono”, quello che dà tutto ai figli e non li sgrida mai. Mia moglie fa tutto il resto”.
Nella sua lunga carriera ci sono molti record, ma uno su tutti è entrato nella leggenda: the Magnificent Seven. il 28 settembre 1996 ad Ascot, di fronte a decine di migliaia di inglesi impazziti, lei ha vinto tutte e sette le corse in programma. Il Time scrisse che risultati del genere “trasformano gli uomini in dei”.
Si è sentito un dio quel giorno?
“Quel giorno no, ero troppo emozionato e confuso… il giorno dopo sì! Quando ho aperto la porta per prendere il giornale c’era una torma di giornalisti fuori con le telecamere e i taccuini aperti. Wow! Io ero in mutande e canottiera e ho subito richiuso la porta”.
Sembra la scena di Hugh Grant in Notting Hill.
“Uguale. E’ stato in quel momento che ho capito che era successo qualcosa”.
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Lei è stato definito il Robin Hood delle corse, il campione del popolo che ha battuto i pronostici tirando fuori l’impossibile. Il giorno delle magnificent seven i bookmaker persero 40 milioni di sterline.
“Sono passati 23 anni e ancora adesso incontro persone che mi ringraziano: tassisti, infermiere, l’avvocato e il pensionato. Ci sono persone che quel giorno hanno vinto, puntando poche sterline, una marea di soldi. Chi mi racconta che gli ho pagato il mutuo, chi il matrimonio, chi la barca o la macchina nuova”.
Nella sua vita, come nella carriera, lei ha avuto alti e bassi e, da un certo punto di vista, si può considerare un sopravvissuto. Come andò l’incidente d’aereo che la coinvolse?
“Era il primo di giugno del Duemila. A quel tempo avevo un mio aereo personale, con il mio pilota, a sei posti, però in quel momento era in manutenzione e ne avevamo preso uno in affitto quasi uguale. Purtroppo il mio pilota e amico, Patrick MacKay ha perso la vita e io sono sopravvissuto. L’incidente avvenne al decollo e ho rischiato di morire due volte: sia all’impatto con il suolo che dopo, perché mi ero rotto la gamba e non sarei riuscito a uscire da quell’inferno di fuoco senza l’aiuto del mio collega Ray Cochrane, anche perché dopo l’aereo è esploso”
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Ha pensato: oddio, sto per morire?
“Sì. Quando l’aereo stava precipitando ho pensato che fosse davvero finita, ma non ho avuto davvero paura. E’ strano. Ho provato questa sensazione di disappunto. Mi dispiaceva che finiva così. Cavolo, ho 29 anni, ho appena fatto un figlio, le cose mi stanno girando benissimo e mi porti via adesso”.
Poi c’è stato anche l’episodio della cocaina nel 2012 e la sospensione dalle gare per sei mesi. Come è riuscito a rialzarsi?
“La droga sta dappertutto e ci sono finito dentro anche io. Non ero dipendente, ne facevo un uso ricreativo. Mi sono fatto coraggio e sono ripartito, sono debolezze dell’uomo. Non sono stato il primo e non sarò l’ultimo”
Ha provato vergogna quando è tornato sulla scena?
“Sicuramente sì, solo adesso che ho passato i 50 anni sono riuscito a mettere tutto su un libro. Non mi sento più in imbarazzo e posso dire cose che non avrei detto dieci anni fa. Fa parte dell’arcobaleno della mia vita: non puoi dire che c’è stato solo il giallo e il rosso, ma anche il nero e il viola. I posti belli e quelli brutti, nessuno ha fatto la vita perfetta”.
La sua “firma” è il salto d’angelo che fa dalla sella ogni volta che vince. Come nasce?
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“La verità è che io sono stato un ladro, ho rubato questa cosa da un fantino portoricano che si chiamava Angel Cordero Jr ed era uno dei miei eroi”.
Come lei, Cordero vinse tutto negli Stati Uniti.
“Sì. Mi piaceva il suo stile, io ho copiato tanto da lui. Nei primi anni Novanta mi ha preso sotto la sua ala, mi ha dato dei consigli, sono stato a casa sua. Poi nel ’94 ho fatto il salto d’angelo una prima volta quando ho vinto la Breeder’s Cup e da lì è diventato una specie di tradizione. La cosa divertente è non fu presa bene all’inizio”.
Perché?
“Perché in quegli anni il mondo dell’ippica era ancora molto chiuso e autoreferenziale, non si poteva ridere. Poi piano piano, anche grazie a Sky, si sono aperti, ed è diventata una cosa accettabile che la gente si diverte a guardare”
Ha qualche altro oggetto o rituale scaramantico, come molti fantini?
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“Io li avevo tutti! Portavo al collo una catena che sembravo Mr-T, quello della serie A-team: avevo un corno, un ciondolo a forma di trifoglio, ogni cosa. Alla fine un giorno mi sono tolto tutto, era diventato una cosa ossessiva, molto tipica in Italia ma vivendo in Inghilterra l’ho lasciata un po’ andare…”.
E ha continuato a vincere anche senza amuleti. Crede in qualcosa, fortuna a parte?
“Sono cristiano, credo in Dio, basta quello”
Come si fa ad avere a 52 anni un fisico come il suo?
“Ho a casa un tapis roulant sul quale faccio un’ora di corsa leggera/camminata tutti i giorni. Ma corro non tanto per allenarmi, quando per poter mangiare e bere quanto voglio. Altrimenti la vita del fantino è sempre sulla bilancia, devi essere come un monaco… non fa per me”.
Quindi è una leggenda che beve solo acqua?
“Ma certo! Nella mia carriera avrò bevuto milioni di litri di champagne”.
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Si è molto favoleggiato del suo rapporto con la regina Elisabetta, i vostri cocktail Martini…”.
“Gin&Tonic”
Cosa c’è di vero?
“Tutto. E’ stato un bel rapporto, durato trenta anni. All’inizio avevo un po’ di soggezione, aveva sempre questa presenza bellissima, carismatica. Però poi siamo entrati in confidenza. Due volte l’anno veniva nella mia scuderia, prendevamo il thè assieme, voleva sapere sempre tutti i retroscena sulle altre scuderie, sui fantini e i cavalli. E io allora le raccontavo un po’ di gossip, gli scandali, le davo quello che voleva”.
Perché il pubblico inglese l’ha subito adottata?
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“Forse perché cercavano una persona diversa. Quelli di prima erano tutti freddi e seri…io ho portato un po’ di gioia nell’ippica degli anni Novanta quando non c’era, avevo un carattere aperto, mediterraneo. La gente finalmente poteva avvicinarsi un po’ di più al nostro sport, che prima era visto come lo sport dei Re, dei principi e dei ricchi. Io ho unito la gente e le élite, l’alto e il basso”.
Quest’anno finirà con l’agonismo. Dove?
“Il 15 ottobre farò la mia ultima corsa in Italia, a Milano. Il 21 ottobre ad Ascot, in Inghilterra, sarà l’ultima volta sul suolo europeo. Ma non ho ancora deciso l’ultima gara in assoluto, tra America, Giappone e Australia”.
E dopo il 2023? Quale sarà la seconda vita di Dettori una volta sceso, come quel bambino, dalla sella?
“Sono in trattativa con alcuni canali tv per fare il commentatore, ma ancora non c’è niente di scritto”.
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Lascia mentre è in cima alla vetta. Il sentimento prevalente è il rammarico o addirittura, forse, c’è un senso di liberazione?
“Il mio cuore vorrebbe continuare ma la testa dice che è questo il momento giusto per fermarmi. C’è l’angelo e c’è il diavolo…Sarà molto doloroso lasciare, ma anche mio padre mi ha messo in guardia: uno sportivo muore due volte, la prima quando smette di correre e poi quando muore veramente”.
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