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Giuseppe Catozzella per “la Repubblica”
Per Edward Said il modo dell’Occidente di rapportarsi al Medio Oriente ha un nome preciso: “Orientalismo” (titolo del suo saggio del 1978). E orientalismo è «l’insieme delle istituzioni create dall’Occidente al fine di gestire le proprie relazioni con l’Oriente».
Istituzioni che implicano rapporti di forza economici, politici e militari. Ma occorrono anche, per Said, “fattori culturali”, vale a dire un «insieme di nozioni sull’Oriente», non importa se veritiere o fittizie, che consentano all’Occidente di esercitare «la propria influenza e il proprio predominio » su quelle terre.
Un discorso, comune e condiviso da tutto l’Occidente, nell’accezione suggerita da Foucault nell’Archeologia del sapere. Senza quel discorso, quei fattori culturali, spiega Said, «risulta impossibile spiegare la disciplina costante e sistematica con cui la cultura europea ha saputo trattare – e persino creare – l’Oriente in campo politico, sociologico, militare, ideologico, scientifico e immaginativo».
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L’idea che oggi abbiamo di quelle terre, «sede delle più antiche, ricche, estese colonie europee» è, per Said, frutto di decenni di pratiche discorsive su «uno dei più ricorrenti e radicati simboli del Diverso ».
Ma dove si forma questo discorso, come oggi lo conosciamo? Un libro di Phillip Knightley e Colin Simpson, da poco pubblicato, Le vite segrete di Lawrence d’Arabia (Odoya, pagg. 362, euro 22), rintraccia quel momento nel primo periodo in cui Thomas Edward Lawrence, a diciannove anni, si iscrisse a Oxford, nel 1907. Lì conobbe David George Hogarth, suo mentore, confessore e protettore, senza il quale «non è esagerato dire che non ci sarebbe stato nessun Lawrence d’Arabia».
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Hogarth lo introdusse al circolo della Round Table, un periodico che propugnava la Federazione (cioè l’unione di tutti i bianchi dell’Impero) e l’Imperialismo. Sulle sue pagine si legge del ruolo di «principale forza civilizzatrice dei paesi di lingua inglese», e che l’imperialismo «dovrà diventare la fede riconosciuta di tutta la nazione ».
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È così che Lawrence, attraverso il suo maestro, coltiva, come scrive lui stesso, l’idea di «formare una nuova nazione di gente entusiasta della nostra libertà e desiderosa di entrare a far parte del nostro Impero»: si riferisce al popolo arabo, a coloro che stavano tra l’Egitto e l’India, i due grandi possedimenti della Corona.
Un altro testo, recentemente pubblicato, ci viene in aiuto. È Lawrence d’Arabia e l’invenzione del Medio Oriente di Fabio Amodeo e Mario José Cereghino (Feltrinelli, pagg. 208, euro 17), dove si comprende come «all’inizio del Novecento la parola Medio Oriente non esisteva. A usarla per primo fu nel 1902 Alfred Mahan sulla National Review ».
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Non era infatti ancora sorta la necessità di identificare le terre tra Egitto e India. Mahan era un ammiraglio, e per primo teorizzò che «la Royal Navy dovesse proteggere le rotte tra il Canale di Suez, il Mar Rosso, il Golfo Persico». Perché? C’era, certo, la doppia minaccia: da nord, da parte «dello zar di tutte le Russie»; e da ovest, «la crescente egemonia finanziaria e commerciale del Reich tedesco sulla Turchia asiatica».
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Ma c’era anche altro. Verso la fine del 1908, Lawrence presenta l’idea della sua tesi di laurea: la premessa è che i crociati abbiano portato nel Medio Oriente quei princìpi di architettura militare che in genere tutti gli esperti asseriscono venire dal Medio Oriente. Così, impara l’arabo e parte per la Siria, che allora comprendeva le attuali Israele, Giordania e Libano. Ma queste spedizioni archeologiche erano finanziate da ministeri che con l’archeologia nulla avevano a che vedere.
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Ecco che Lawrence si trova in pieno dentro il Grande Gioco, e nel 1914, Hogarth lo fa entrare nei servizi segreti militari. Occorreva vincere la Prima guerra, e vincerla sia via mare, sfruttando la geniale trovata dell’ammiraglio Fisher di alleggerire i vascelli militari dal carbone, alimentandoli con motori a scoppio da poco inventati, sia via terra «sfruttando gli arabi per scardinare la Sublime Porta».
Così Lawrence, il 10 giugno 1916, convince «lo sceriffo della Mecca a innalzare il suo vessillo contro i turchi», e per farlo promette loro la libertà e l’indipendenza, pur sapendo che una volta vinta la guerra la politica imperiale britannica, che lui ha collaborato a formulare, farà di quelle promesse lettera morta. Certo, scrive Lawrence, «era meglio vincere e rinnegare la parola che perdere».
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E non soltanto per questioni geografiche. I dispacci che giungevano alla Corona parlavano infatti del «propellente del futuro, un idrocarburo viscoso, i cui giacimenti si trovano tra la Persia e la Mesopotamia (attuali Iran e Iraq): petrolio ». Energia del futuro capace di far correre le nuove navi della Royal Navy. Nascono le grandi compagnie petrolifere, dalla Turkish Petroleum, alla Shell, alla Deutsche Bank Petroleum.
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Gli arabi sconfiggono gli Ottomani, ma in cambio non ottengono nulla. Al contrario, Inghilterra e Francia si dividono il neonato Medio Oriente creando nazioni a tavolino nate per spartire le royalties dei proventi dei pozzi, sulla base dell’accordo di Sykes-Picot, senza tenere conto delle differenti etnie o confessioni: «Sciiti con sunniti, curdi con armeni, alawiti con drusi».
La Mesopotamia (l’Iraq) e la Persia (Iran) agli inglesi, e così la Palestina. Fu inventata la Giordania, sempre agli inglesi. La Siria e il Libano ai francesi. La penisola arabica finì sotto il controllo inglese.
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Lawrence, di fronte al fatto compiuto e pentito, in quei mesi avvertì: se non manteniamo la parola «il prezzo da pagare sarà altissimo», si genererà un «desiderio di riscatto, rabbia e deviazioni fondamentaliste». Rimase inascoltato.
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