Gianmaria Tammaro per www.lastampa.it
Le serie tv di questi mesi, distribuite da piattaforme streaming e da canali tradizionali, sono serie tv che raccontano tante storie diverse, che spesso si affidano al genere, che – piccola, piacevole sorpresa – provano a dare più spazio al femminile, scegliendo protagoniste, scrittrici e showrunner donne.
Ne abbiamo raccolte dieci: alcune sono ancora in corso, e altre si sono già concluse. Alcune sono miniserie, quindi sono composte da pochi episodi, e altre, invece, sono distribuite su più stagioni. Ci sono due titoli italiani, molti titoli americani e inglesi ed uno, una spy story, israeliano.
Buona parte delle serie sono basate su libri. È evidente il tentativo di provare a mostrare le nuove generazioni nella loro complessità, portandole fuori dalla comfort zone dei coming-of-age, e trattando i più giovani come persone adulte e consapevoli.
anya taylor joy la regina degli scacchi 2
The Queen’s Gambit (Netflix)
È la serie del momento, e come spesso accade con la serie del momento: nessuno se l’aspettava. «The Queen’s Gambit» (in italiano «La regina degli scacchi») è basata su un bel libro, firmato da Walter Tevis, è scritta e diretta da Scott Frank, già showrunner di «Godless» e sceneggiatore di «Out of Sight» (è qui che ha conosciuto Steven Soderbergh), e racconta la storia di una ragazza, Beth, interpretata da Anya Taylor-Joy, bravissima nel gioco degli scacchi.
la regina degli scacchi 1
È una miniserie, quindi dura una sola stagione. Siamo nel bel mezzo della guerra fredda, e Beth deve vedersela con i russi, che in fatto di scacchi, abbastanza prevedibilmente, sono i più bravi al mondo. C’è tanta buona musica, in «The Queen’s Gambit».
Ma soprattutto c’è il lavoro straordinario di un regista-scrittore che riesce a fare suo un racconto, a rigirarlo, a cambiarlo quando serve, e che riesce ad affrontare in modo nuovo, diverso, il tema della genialità (che non è sempre un bene, e che a volte, non spesso, deve cedere al compromesso del lavoro di gruppo). Inizio e metà sono spettacolari.
Utopia (Prime Video)
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Qualche anno fa, sul canale inglese Channel 4, andava in onda un’altra “Utopia”: era ambientata nel Regno Unito, tutti parlavano con uno spiccato accento british, e l’andamento del racconto era lento, trascinato, particolarmente morboso.
Il tema di fondo, come nel caso di questa nuova «Utopia», era sempre lo stesso: la fine del mondo, un complotto per colpire l’umanità, l’importanza di fare la cosa necessaria (e non la cosa giusta).
utopia prime video
Nel remake americano, scritto da Gillian Flynn, tutto va più veloce, è più adrenalinico e immediato; ci sono nuove trovate, e qualcosa – più di qualcosa, in realtà – prende la strada della semplificazione.
Ma va bene così: seguiamo questo gruppo di persone, di amici, di sconosciuti, che si ritrovano insieme per caso, che provano a interpretare le pagine di un fumetto (Utopia, appunto) scritto da un pazzo, e a non farsi uccidere mentre provano a salvare il mondo. Di mezzo, c’è una pandemia.
Alex Rider (Prime Video)
alex rider
Ci avevano già provato, anni fa, ad adattare i libri di Anthony Horowitz. Questa volta ci riprova Amazon Prime Video, sotto la supervisione di Guy Burt («I Borgia»), e ci riesce splendidamente. Alex Rider è un orfano, che cresce con suo zio e che un giorno, per puro caso, si ritrova coinvolto in un intrigo internazionale.
alex rider
È un adolescente, va ancora a scuola, ma il governo di Sua Maestà – un ufficio segreto, di cui nessuno conosce l’esistenza – non esita un momento nell’ingaggiarlo. Alex, interpretato da Otto Farrant, classe ’96, è perfetto per infiltrarsi in un collegio francese, dove vengono accolti solo i figli dei più ricchi.
Per fortuna, l’uso di tecnologie assurde è ridotto all’osso (anche se…). Il protagonista non diventa James Bond nel giro di pochi episodi (anche se…). E nel cast c’è uno straordinario Stephen Dillane («Game of Thrones»), che rende tutto estremamente convincente.
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Romulus (Sky Atlantic/NowTv)
romulus
Matteo Rovere ha sempre voluto girare «Romulus». «Il primo Re», con Alessandro Borghi, uscito al cinema quasi due anni fa oramai, è stata la sua prova generale. Alla fine, ha convinto i produttori (Groenlandia, Cattleya e Sky) e si è rituffato nel mondo dell’antica Roma, prima della sua fondazione; ha rimesso mano alla leggenda e alla storiografia, e ha creato un nuovo racconto epico, tutto in protolatino (un derivato arcaico del latino, per intenderci) in cui i temi, più o meno, sono sempre gli stessi.
romulus ph francesca fago 23
La cosa incredibile di questa serie, però, è un’altra. È l’accuratezza della messa in scena, ed è la profondità di ogni momento e di ogni situazione. Il protolatino, per quanto incomprensibile, permette agli attori – e anche agli autori – di lasciarsi andare, e quindi è tutto più immediato, più fisico, più ferino.
silvia calderoni lupa in romulus
«Romulus», più che vista, andrebbe seguita. Concentrandosi sulla storia dei singoli personaggi (nel cast: Andrea Arcangeli, Marianna Fontana e Francesco Di Napoli; da segnalare, bravissima, Ivana Lotito), Rovere riesce a costruire – anzi: a demolire – un mondo antico fatto di ferocia, violenza e sangue, e a declinare la sua personalissima versione della leggenda della fondazione di Roma. I due gemelli? Due sconosciuti. La lupa? Una divinità.
Il giovane Wallander (Netflix)
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Come l’inglesissima «Endeavour», anche «Il giovane Wallander» è il racconto prequel, che si concentra cioè sulle origini, di uno dei grandi poliziotti della scena gialla internazionale. In questo caso, si parla di Kurt Wallander, creato dalla penna di Henning Mankell.
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È una riscrittura in chiave moderna, al giorno d’oggi, e affronta abbastanza esplicitamente alcune delle questioni politiche e sociali più attuali di questi anni: immigrazione, integrazione, lavoro, povertà, la rinascita degli estremismi; l’abbandono delle periferie. Wallander, interpretato da Adam Pålsson, è alle prime armi, è appena stato promosso a detective, e deve ancora imparare come muoversi – cosa accettare e cosa rifiutare, quali compromessi stringere, su cosa, per il bene superiore, per la giustizia, sorvolare. In una stagione, già disponibile su Netflix, c’è un solo caso. Da guardare tutta d’un fiato.
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Cobra Kai (Netflix)
«Cobra Kai» è la risposta a tantissime domande. Per esempio: che cosa puoi fare con un franchise come «Karate Kid», anni dopo il suo successo? Oppure: quanto è difficile costruire una buona storia quando a tua disposizione hai pochissimi soldi?
«Cobra Kai» nasce come una serie originale di Youtube, e anche se nei primissimi tempi, quando era disponibile sulla piattaforma di Google, era riuscita a raccogliere un certo seguito negli Stati Uniti, non ha mai sfondato.
Ora è arrivata su Netflix (il potere del brand, signore e signori) e tutti ne parlano: anche qui in Italia. C’è lui, Johnny, il vecchio rivale di Karate Kid, interpretato da William Zabka, che è cresciuto, si è sposato, ha avuto un figlio e ha divorziato; vive facendo lavoretti da poco, ed è ancora ossessionato dalla sconfitta. È burbero, irascibile, disonesto.
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Ma riesce a riaprire la scuola del suo vecchio maestro (Cobra Kai, appunto), e a mettere insieme un gruppo di ragazzini emarginati, soli, spesso bullizzati. È una storia di riscatto, in un certo senso. E mostra per la prima volta, con pochi soldi, grande originalità e straordinaria passione, cosa succede a chi perde. Al momento sono disponibili due stagioni. Una terza, già annunciata, è in produzione.
The Mandalorian (Disney+)
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Jon Favreau («Iron Man») è riuscito a trovare la ricetta perfetta per costruire una serie di «Star Wars» rievocando l’epica, la cura e la magnificenza della prima trilogia. Ha messo da parte la computer grafica, ha rivoluto l’effettistica artigianale, lavorando sui modellini e sulle marionette; ha creato – meglio ricreato – un personaggio perfetto per il piccolo schermo, si è circondato di bravi attori, bravi scrittori, e ha attinto al bacino dei nuovi registi di Hollywood.
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È stato fortunato, perché gli è andata bene. Ma anche perché la Disney, che ora possiede la Lucasfilm, gli ha dato tutto lo spazio di cui aveva bisogno. «The Mandalorian», disponibile ora con la seconda stagione, è un western. Il suo protagonista, interpretato da Pedro Pascal, è un mercenario solitario, che non si toglie mai il casco, che vive seguendo un codice d’onore, e che ha deciso di proteggere il Bambino, ultimo discendente di un’antica razza ed ultima speranza per l’Ordine dei Cavalieri Jedi.
In tutti gli episodi, succede sempre qualcosa. Un nuovo mondo, un nuovo nemico, una nuova sottotrama. La cosa più convincente di questa serie è la sua atmosfera: la sua capacità, cioè, di tenere insieme un universo narrativo, e di rendere ogni cosa, anche la più assurda, speciale.
Tehran (Apple tv+)
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In questi anni, se c’è un mercato televisivo che è riuscito ad imporsi all’attenzione internazionale senza fare troppa confusione, senza esagerare, ma abbracciando una linea editoriale – e produttiva, e creativa – precisa, è il mercato israeliano.
Che ha messo insieme tanti piccoli spunti narrativi, che ha raccontato personaggi credibili, tridimensionali, sinceri. E che ha fatto della sua storia – di paese, di industria – la sua forza. «Tehran» è una serie spy, distribuita da Apple tv+, che racconta la vita di una donna, di una hacker, che lavora per il Mossad, i servizi di intelligence israeliani. E questo vuol dire tante cose. Innanzitutto, la possibilità di poter giocare con un immaginario diffuso, che appartiene a tutto il mondo.
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Secondo: poter ribaltare con forza, senza nessun compromesso, il punto di vista della narrazione, dando a una spia donna, interpretata da Niv Sultan, classe ’92, il ruolo più importante (era già successo con «Homeland», vero: ma qui le cose sono piuttosto diverse e, in un certo senso, più «estremizzate»). «Tehran» rimane sempre sulla linea sottile del possibile: non ci sono sbavature, non ci sono iperboli. C’è una compattezza di fondo, solida, che avvolge l’intera serie.
We are who we are (Sky Atlantic/NowTv)
we are who we are
Luca Guadagnino è arrivato nel posto giusto al momento giusto, e ha creato – scrivendolo a sei mani con Paolo Giordano e Francesca Manieri – un racconto generazionale, pensato per il piccolo schermo, semplicemente incredibile. Perché pieno di cose, di estremi, di passione, di rabbia, di incertezza.
we are who we are jordan kristine seamon & jack dylan grazer photo by yannis drakoulidis
E perché vero, credibile, appassionato. I due protagonisti sono due adolescenti, due americani figli di americani che sono costretti a vivere in una base militare in Italia, nel Nord del paese, dove il mare riesce a sommergere la terra, e la terra deve faticare per trovare il suo spazio, raccogliendosi in isolotti e in piccoli spiazzi. Lui e lei, Fraser e Caitlin, interpretati da Jack Dylan Grazer e da Jordan Kristine Seamón, sono confusi sulla loro identità, sul loro futuro, sui loro desideri.
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Devono scoprirsi e scoprire; devono imparare a conoscersi, e devono capire chi essere. «We are who we are», prodotta da The Apartment e Wilside con Small Forward, serie Sky-Hbo, è distesa come un ottimo romanzo, arricchita di particolari e di dettagli come un buon film, ma soprattutto è una serie – essì, lo è – per la sua natura capitolare, per l’attenzione che riserva ai personaggi, per il tempo che si prende nel mostrare, più che nel dire, qualcosa. È un racconto generazionale, che sa d’amore, d’amicizia, che sa di sessualità, di avventura, di sconfitta. Che parla di loro, i «nuovi» giovani, e che parla di noi, gli altri, gli adulti: disperatissimi nella nostra immobilità per l’incertezza del domani.
Normal people (Starzplay)
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In tutto il mondo, «Normal people» è stato un vero e proprio caso del piccolo schermo. Perché è ispirata a uno dei romanzi più letti e chiacchierati di questi anni («Normal people», appunto). E perché riesce a raccontare splendidamente, come pochi altri sono stati in grado di fare, l’essere giovani oggi.
Soprattutto, l’essere giovani oggi e – dettaglio non da poco – innamorati. I due protagonisti, interpretati da Paul Mescal e Daisy Edgar-Jones, sono fatti l’uno per l’altra, si inseguono dai tempi del liceo, si ritrovano all’università, si amano e si odiano, si prendono e si lasciano in continuazione, e hanno sempre la stessa consapevolezza: senza di lui, senza di lei, non posso vivere.
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C’è un ribaltamento totale dei punti di vista verso la metà della stagione. Lui, da ragazzo popolare, diventa un emarginato; e lei, da emarginata, diventa ragazza popolare.
Si parla del rapporto che abbiamo con la crescita, con il lasciarci alle spalle le nostre sicurezze, con il trovare, finalmente, il nostro posto nel mondo.
Sally Rooney, che è la scrittrice del libro originale, qui in Italia edito da Einaudi, è anche co-sceneggiatrice della serie. E questo, insieme allo straordinario lavoro di Lenny Abrahamson («Frank», «Room») alla regia, è uno dei motivi del successo – inteso come buona costruzione, non come risposta di pubblico – di «Normal people».
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