Vanni Santoni per “La Lettura - Corriere della Sera”
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C’è attesa, ma anche trepidazione, alla prima uscita europea di Bret Easton Ellis e del suo nuovo romanzo Le schegge, alla Maison de la Poesie di Parigi. È il primo romanzo in 13 anni dell’autore che ha segnato con maggiore forza il passaggio dagli anni Ottanta ai Novanta, e l’attesa e la trepidazione si mischiano alla speranza.
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Ellis sale sul palco in felpa nera col cappuccio, jeans e scarpe da tennis, un look più da regista che da scrittore, e del resto negli ultimi anni ha messo da parte la narrativa per darsi al cinema e alla tv, scrivendo film per registi come Gregor Jordan, Paul Schrader e Derick Martini, e dirigendo anche una serie, The Deleted.
Al cinema, alla tv, e anche ai podcast. In effetti Le schegge è stato scritto inizialmente per essere letto a puntate nel suo podcast, come un feuilleton contemporaneo, e anche questo non prometteva benissimo (ma, di nuovo, ci sbagliavamo), così come non promette bene l’attacco della presentazione, con la relatrice che, partendo dal podcast e dagli ospiti invitati negli anni, gli chiede com’è Kanye West.
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Tornare alle antiche atmosfere
Le schegge è in effetti un romanzo eccezionale, è il miglior BEE, il BEE che abbiamo lungamente atteso, è un ritorno sfolgorante sulla scena, con tutto l’armamentario stilistico e tematico a cui ci ha abituati, e pure diverse sorprese nuove.
Certo, appare evidente come si tratti di un romanzo in cui l’autore ha voluto andare sul sicuro. Nelle Schegge abbiamo dei ragazzi bellissimi, ricchissimi e vuoti, proprio come nei suoi primi romanzi, e su quei ragazzi aleggia l’ombra di un serial killer, che non può non fare pensare ad American Psycho.
L’autore che abbiamo amato, per il quale siamo ancora disposti ad affollare un teatro sulla fiducia, è tornato, ed è tornato anche nei suoi territori più intimi e più mappati. Nelle Schegge, Ellis si prende il tempo e il gusto di mischiare le carte, ma senza uscire dal suo seminato più classico, portandoci in giro (ovviamente su decapottabili di lusso dalla cilindrata fuori proporzione per degli adolescenti) per i quartieri alti di una Los Angeles al neon, dal vago sapore vaporwave ma con in più un costante, e crescente, senso di minaccia.
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(...) «Il protagonista si chiama Bret, come me — spiega Ellis — e rimanda ai personaggi dei miei primi romanzi, ma in realtà io non ero come loro. Ho avuto una giovinezza culturalmente ricca, con tante letture, tanto cinema e tanta buona musica, che è poi quella che fa spesso da colonna sonora alle Schegge. Certo, ci divertivamo come loro. Usavamo droghe? Naturale: eravamo ragazzi, ci volevamo divertire e ci siamo divertiti: non siamo mai stati utilizzatori problematici».
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«È tutto più difficile, da vecchi, no?», ride Ellis. «L’amore, soprattutto... ma è più difficile tutto. Per questo chiunque, io credo, ha nostalgia della giovinezza. È vero che il primo seme di questo romanzo l’ho elaborato quando avevo l’età del protagonista, e come il protagonista volevo sfondare nella scrittura, che fossero romanzi o sceneggiature. Ma poi, per trovare la voce giusta, e anche il giusto approccio, ci sono voluti quasi quarant’anni.
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La prospettiva delle Schegge, quella che cercavo ma non potevo sapere di volere, è infatti quella di qualcuno che di anni ne ha più di 50, e tanto tempo dopo certi eventi che l’hanno turbato, cerca di rimettere assieme i pezzi». E poi: «È chiaro che i ragazzi delle Schegge, tutti così belli e patinati, sono figure estetizzate, volutamente esagerate, mediate dall’immaginazione del narratore: mi stupisco che a volte non venga capito. Certo, le ambientazioni erano quelle, e anche certe fragilità erano reali, ma teenager esattamente così non sono mai esistiti se non nelle mie fantasie: gli adolescenti non si comportano così, non pensano così, e di certo non fanno sesso così».
(...) C’è chi mi ha rinfacciato che i miei omosessuali fossero cattivi. “Eh”, gli ho detto, “sapete, gli omosessuali sono persone, e ci sono persone buone e persone cattive...”. Trovo tutto ciò assurdo: noi ragazzini degli anni Ottanta, quando leggevamo o guardavamo un film, volevamo essere scioccati, offesi, provocati!».
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A fine presentazione vado da lui e gli chiedo se gli sembra di essere diventato più buono, e se la causa di quest’impressione che emerge dalle Schegge sia Robert Mallory, il «cattivo» del libro, come se avesse funzionato da attrattore di tutto il male, rendendo così empatia a lui. «Non so — dice Ellis — se ho convogliato il mio lato oscuro in Robert.
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Anzi non so se ho ancora un lato oscuro... Ormai faccio una vita molto tranquilla, sa? La verità è che proietto sempre molto, e Robert Mallory, anche se è certamente una figura inquietante — ma scopriremo che anche il buon Bret non è del tutto a posto — rappresenta soprattutto qualcos’altro: la tendenza che avevo, da adolescente, a immaginarmi le storie più assurde attorno a chiunque conoscessi, o anche solo vedessi.
Ricordo che un amico si infuriò quando, leggendo una mia storia, vide che ne avevo fatto un gigolò per uomini, cosa che lui non era di certo, ma io me lo ero immaginato: quando qualcuno spariva dalla circolazione per un po’, mi figuravo subito le motivazioni più losche e fantasiose. Il Robert Mallory delle Schegge può essere davvero il ragazzo bellissimo che vidi un giorno al cinema, e sul quale mi immaginai di tutto, fino ad arrivare, come accade al Bret del romanzo, a crederlo un manipolatore, un pazzo e forse addirittura un omicida seriale».
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