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    LE PAURE DEL GOVERNO. IL SILENZIO DEL DUCETTO SULLA MANOVRA GENERA SOSPETTI DI FUOCO AMICO SUI CONTI – I PRETORIANI DI RENZI BLOCCANO LE PRIVATIZZAZIONI IN CONSIGLIO DEI MINISTRI – IL DUBBIO DI GENTILONI: CHI VOTA LA FINANZIARIA?


     
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    Alessandro Barbera per la Stampa

     

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    Dieci miliardi di sacrifici, il taglio Irpef nel cassetto e una prospettiva politica tutt' altro che elettorale. Cosa sta succedendo sull' asse Palazzo Chigi-Tesoro? Dopo due anni di pugni sul tavolo - per parafrasare Matteo Renzi - la linea scelta da Paolo Gentiloni e Pier Carlo Padoan per la manovra d' autunno somiglia ad una svolta. La domanda che corre veloce nei palazzi è se reggerà alla prova parlamentare. «Il sentiero è stretto, passa sul crinale e non ammette scorciatoie», dicono a via XX settembre.

     

    L' uscita del leader Pd da Palazzo Chigi ha indebolito il governo, ma allo stesso tempo lo ha costretto a imporsi un' agenda per certi versi più coraggiosa. Prima del referendum c' era solo il vincolo esterno dell' Europa. Ora quel vincolo si è rafforzato e si somma a quello interno di una maggioranza in decomposizione. Dopo la scissione di Bersani & c. e il fuggi fuggi dei verdiniani i numeri del Senato dipendono da loro.

     

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    Più che l' opposizione, Padoan teme il fuoco amico della sua stessa maggioranza. Più si avvicina il momento delle elezioni, più diventa difficile governare. «Ogni anno è peggiore del precedente», ragiona il ministro in queste ore con i collaboratori. Prendiamo le privatizzazioni: nonostante la riduzione del target a cinque miliardi, resta difficile farle digerire al corpaccione del Pd.

     

    Padoan è deciso a procedere con la vendita di un pezzo di Trenitalia e della seconda tranche di Poste, eppure ieri in Consiglio dei ministri è stato difficile persino discutere l' ipotesi di cedere quote di società pubbliche ad una altra società pubblica, la Cassa depositi e prestiti. «Differenze di vedute fra ministri», raccontano al Tesoro.

     

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    Più che su un sentiero, ormai da mesi Gentiloni e Padoan camminano come funamboli su un filo. Da un lato il burrone delle elezioni, dall' altro quello della perdita di credibilità in Europa, franata sotto i colpi del no al referendum. Sotto traccia le due linee, quelle di Padoan e Renzi, si sono scontrate per settimane col Presidente del Consiglio - in posizione mediana - che ha lavorato di bulino.

     

    Ha concesso al predecessore tutto il possibile sulle misure «a latere» (abolizione dei voucher, premio agli statali), ma ha tenuto sul «grosso». In particolare Gentiloni ha condiviso con Padoan l' opzione della responsabilità sul deficit, scartando senza esitazioni lo scontro con l' Europa. Le due linee non si sono sfidate apertamente ed era impensabile che questo avvenisse col Pd in pieno congresso.

     

    Renzi ha fatto buon viso, elogiando il governo («Iva, zucchero e benzina non aumentano, le tasse non aumentano e bisogna dire bravo a Gentiloni e al ministro Padoan»), ma il segretario in pectore del Pd - così come il presidente del Consiglio e il ministro dell' Economia - sanno tutti che la vera partita si gioca in autunno.

     

    aula senato aula senato

    Renzi, in cuor suo, preferirebbe uno scioglimento anticipato delle Camere per non fare regali alle opposizioni. Sa bene che con una legge elettorale ad impianto proporzionale il partito che ottiene un voto in più del secondo sarà chiamato a dare le carte ad inizio legislatura. In alternativa Renzi immagina una dura trattativa con Bruxelles e su questa scommessa le strade potrebbero, almeno in parte, ritrovarsi.

     

    Gentiloni e Padoan, anche se non potranno mai dirlo apertamente, sono sicuri che i margini con Bruxelles saranno destinati ad allargarsi significativamente in caso di una vittoria in Francia dell' europeista Emmanuel Macron e in Germania di una grande coalizione Merkel-Schulz, col ministro delle Finanze Schauble destinato ad uscire di scena. I due consoli sono loro malgrado costretti alla scommessa.

    JUNCKER GENTILONI JUNCKER GENTILONI

     

    Nel Documento di economia e finanza hanno promesso un deficit dell' 1,2 per cento - il più basso della storia recente - ma l' hanno fatto dopo aver avuto ampie rassicurazioni dai vertici della Commissione su una possibile revisione di alcuni parametri del cosiddetto «saldo strutturale» e che ci potrebbero permettere di salire fino all' 1,8 per cento.

     

    «La pressione è fortissima: ormai c' è un blocco di dieci Paesi a favore», ragiona un membro del governo. Solo in questo caso la Finanziaria per il 2018 potrà essere sufficientemente robusta da portare acqua al mulino del Pd alle elezioni della prossima primavera. Se viceversa il governo dovesse cadere, allora quell' 1,2 per cento sarà stata l' assicurazione contro il rischio di un nuovo 2011. Un' assicurazione che - sotto sotto - conviene sottoscrivere anche a Renzi.

     

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