The Serpent
Marco Giusti per Dagospia
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E’ vero. Il crime funziona sempre. Questo impressionante “The Serpent”, otto puntate lanciate dalla BBC in Inghilterra e da noi trionfanti su Netflix da una decina di giorni, prodotto da Stephen Smallwood per la Mammoth Screen, diretto da due registi specializzati nel seriale, ma per noi ignoti, il belga Hans Herbops e l’inglese Tom Shankland, interpretato da uno strepitoso Tahir Rahim, non scordato protagonista de “Il profeta”, nel ruolo del serial killer asiatico più famoso di sempre, Charles Sobhraj detto il Serpente, e da un cast di grande livello,
la storia vera di the serpent
Jenna Coleman come la sua compagna Marie-Andrèe Leclerc, Billy Howle come l’olandese Herman Knippenberg, il funzionario dell’ambasciata olandese che gli dà una caccia che inizia negli anni ’70 e va avanti oltre il 2000, Ellie Bamber come sua moglie Angela, è una specie di macchina da thriller complessa e perfetta, ma è anche una fedelissima ricostruzione dei veri delitti compiuti dal Serpente in posti totalmente diversi, Tailandia, India, sulla celebre via degli hippie dei primi anni ’70.
the serpent storia vera
La serie, narrativamente, inizia quando iniziano le prime scoperte del piccolo funzionario dell’ambasciata olandese nel 1975, ma si diramano poi in un continuo intrecciarsi di date più o meno lontane e vicine per ricostruire gli spostamenti e le atrocità di Charles Sobhraj e della sua piccola banda, costituita da una ragazza canadese completamente dominata dalla personalità del serial killer, e dal perfido Ajay, interpretato da Amesh Edireweera.
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Le ricostruzioni delle ambientazioni e dei delitti sono minuziose, anche se leggo che la serie ha avute non pochi problemi con lo scoppio della pandemia, compreso uno stop di cinque mesi, e l’aderenza degli attori ai veri protagonisti della storia almeno visivamente è impressionante.
Il personaggio principale, quello di Sobhraj, e il perché più profondo delle sue azioni, ma penso che sia così anche nella realtà, rimane abbastanza un mistero, e anche per questo la serie punta più all’azione pura, alla lunga caccia per incastrarlo e alla costruzione narrativa molto arzigogolata che lo spettatore è costretto a rimettere a posto come un puzzle temporale.
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Nel pieno del boom anni ’70 dei viaggi dei ricchi rampolli bianchi occidentali in Asia a Katmandu o a Bangkok, Sobhraj, elegante, vanitoso, esibizionista, mezzo francese e mezzo asiatico e quindi né europeo né asiatico come fosse un meticcio furioso melvilliano, con un odio profondo per americani e europei, uccide brutalmente e senza nessun rimpianto i giovani hippies derubandoli di denaro, gioielli, passaporti e identità. Diventa loro, solo per poterne ucciderne altri.
la storia vera dietro the serpent
Con una polizia imbelle o corrotta, con addetti all’ambasciata più interessati a spassarsela che a proteggere i rampolli della buona borghesia europea, il Serpente può uccidere chi vuole come vuole senza venir scoperto, e vede l’arrivo degli hippies strafattoni come se fosse un supermercato dove scegliere con facilità e nessun pericolo le proprie vittime.
Storia incredibile, che ha già prodotto quattro biografie, tre documentari e un film indiano, “Main Aur Charles” di Prawaal Raman nel 2015, tutto dal punto di vista del poliziotto indiano che alla fine lo acchiappò e lo schiaffò in galera, dove ancora sta, trova nel seriale, soprattutto in un seriale non americano e di scrittura più ricca delle solite produzioni Netflix, la sua giusta e distesa forma narrativa.
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Anche perché permette ai registi di costruire tutte o quasi le avventure del Serpente. Vengono escluse solo le sue azioni criminali in Turchia e in Grecia col fratello André, che finirà in galera al suo posto per 18 anni. E punta quasi interamente alle ambientazioni più hippies e alla sua relazione con Marie-Andrée Leclerc, scombinata canadese che vive gli omicidi come sdoppiandosi.
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Forse ha ragione Dago che, dopo un po’, di fronte alla massa di hippies strafatti con soldi e travel check in tasca nei magici anni ’70, che tutti noi ben ricordiamo con la gente che partiva e non si sapeva se e quando sarebbe mai tornata, stiamo quasi dalla parte del mostro, che ha un’idea precisa del capitalismo europeo nei confronti dell’Asia per turisti e si giustifica come se si comportasse da vendicatore di un intero continente.
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Serie, comunque la si veda, piuttosto conturbante, anche perché ci apre a una mostruosità non così lontana da noi e che tende più a raccontare i fatti con precisione che a darne una qualche interpretazione morale, leggo che non è stata molto amata dai critici americani, ma, almeno a noi europei, ha fatto molto effetto. Scelte musicali, inoltre, meravigliose.
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