Valerio Cappelli per il “Corriere della Sera”
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«Non avevo mai immaginato, nei miei sogni più strampalati, di diventare supereroe, raccontando me stesso», dice Lillo. Lo fa nella serie Sono Lillo , in anteprima alla Festa del cinema, otto episodi con la regia di Eros Puglielli, disponibile dal 5 gennaio su Prime Video.
Come nasce il progetto?
«Nasce dal successo di Posaman, che era la molla che doveva far ridere i concorrenti al game show Lol - Chi ride è fuori . Con Greg abbiamo successo, ma non avevo mai avuto un successo iper pop come questo, che piace ai bambini e agli anziani. Mi hanno chiesto una serie da un personaggio che aveva sei pose, un piccolo repertorio di effetti speciali, una roba da venti secondi con protagonista un tipo che un po' c'è e un po' ci fa. Invece abbiamo trovato una chiave di racconto».
Qual è?
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«C'è mia moglie interpretata da Sara Lazzaro che non ne può più di me e delle mie stranezze e mi lascia. Gli amici sono personaggi improbabili che mi ruotano intorno. In questa bizzarra avventura abbiamo creato una realtà alternativa dove Testaccio echeggia Brooklyn. Per dire qualcosa di vero è necessario inventare delle bugie e creare nuovi mondi».
I fumetti l'hanno ispirata?
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«Sono appassionato di fumetti, vengo da quel mondo lì. La metafora del supereroe è importante, da ragazzo avevo pensato di creare Normal Man, la storia di un tipo che diventa cento volte più forte e intelligente ma invece è cento volte più stupido, e diventa normale. Per timore reverenziale, i miei supereroi sono assurdi, ho troppo rispetto per quelli veri».
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Diceva che è se stesso.
«Sì, con le mie insicurezze, le mie paure. Sono io, trasportato nel Metaverso. In ogni situazione partivo da una domanda: come avrei reagito io nella vita? Ho vissuto situazioni che potrebbero sembrare esagerate».
Tipo?
«Un vigile urbano fermandomi mi ha riconosciuto: mi ha detto sei un grande e mi ha fatto una multa pazzesca, mi ha controllato pure il triangolo, e intanto mi diceva sei il numero uno. A un certo punto divento un po' il nemico di me stesso. Qui è tutto autoironico, intrattenimento con molta improvvisazione. Mi piace il surreale che prende spunto dal reale. Non è una storia egoriferita, anzi è corale, partecipano i miei amici».
Chi sono?
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«Pietro Sermonti fa l'agente di cinema, è ossessionato dal biglietto da visita, lo dà anche alle piante e dice: se non hai un tormentone non sei un comico; Marco Marzocca è rimasto al mondo fantasy di draghi, elfi e maghi. Poi Cristiano Caccamo fa mio fratello. Ci sono Valerio Lundini che veniva agli spettacoli di Lillo & Greg, che riprendiamo a marzo, ci veniva sempre a trovare, aveva 13 anni, era il nostro figlioccio, pieno di idee. Corrado Guzzanti sarà guest star in una puntata».
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Lei com' era da piccolo?
«Sono cresciuto a Tor Pignattara, papà poliziotto, mamma casalinga. Non c'erano soldi per comprarmi il costume di Batman e allora mi toccava uno squallido vestitino in prestito dagli amichetti, un principe che non aveva nemmeno la spada. Potevo acquistare un solo fumetto alla settimana, e quel pomeriggio era meraviglioso. Ero timido, curioso, solitario. Mia madre si preoccupava, a casa venivano a trovarla le amiche con i figli e mi diceva, perché non giocate insieme? Ma io avevo già il mio programma. Avevo due personaggi immaginari che creavo con delle smorfie guardandomi allo specchio, Pandor che mi diceva dove sbagliavo, e Pitteride dove sorridevo come Joker, era la parte sdrammatizzante. Da lì raccontavo storie».
La pandemia ha cambiato il modo di ridere?
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«Ridere ora è un bisogno fisico, come andare in bagno o mangiare. Gli spettacoli comici sono sold out. Tanti anni fa con Greg facemmo uno spettacolo per soli anziani: non ridevano mai, stavo sbottando, Greg si travestì da vecchietto e mi disse: giovanotto non mi fai ridere».
Traduzione?
«Non bisogna mai prendersi troppo sul serio».
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