Articolo di Martin Amis per "la Repubblica" - Traduzione di Fabio Galimberti
Martin Amis e famiglia jpegUna volta, in un reame chiamato Inghilterra, scrivere narrativa era una bislacca e innocente occupazione. Più rispettabile dell'angelologia, certo, e più apprezzata dello studio delle muffe fosforescenti: ma senza alcun dubbio era un'attività che interessava una minoranza degli individui.
Nel 1972 presentai il mio primo romanzo: lo avevo battuto a macchina usando una Olivetti di seconda mano e lo avevo spedito a una casa editrice dal mio ufficio di redattore aggiunto in comproprietà con altri colleghi al Times Litterary Supplement. Fu pubblicato, fu recensito e la cosa finì lì.
Niente feste di lancio, niente tour di presentazione, niente interviste, niente profili, niente servizi fotografici, niente incontri per firmare le copie, niente letture pubbliche, niente tavole rotonde, niente conversazioni dal palco, niente festival letterari, "Woodstock della mente" a Hay on Wye, a Toledo, a Mantova, a Paraty, a Cartagena, a Jaipur, e niente radio e niente televisione. Andò allo stesso modo per il mio secondo romanzo (1975) e per il terzo (1978). Quando uscì il mio quarto romanzo, nel 1981, quasi tutte le attività collaterali erano già in marcia e gli scrittori si trovavano a fare il salto dalla "vanity press" a Vanity Fair.
Martin AmisChe cosa era successo nell'intermezzo? Possiamo dire senza tema di smentita che la causa non è stata un'improvvisa esplosione di entusiasmo, tra la fine dei 70 e l'inizio degli 80, per sfumature psicologiche, similitudini argute e frasi ben cesellate.
Il fenomeno, per come lo vedo oggi, è stato una creazione esclusiva dei mezzi di informazione. Per dirla nuda e cruda, i giornali sono diventati sempre più corposi (prima i supplementi domenicali, poi i supplementi del sabato, poi tutti i supplementi di tutti gli altri giorni) e si sono riempiti di pagine supplementari che non contenevano notizie in più, ma servizi in più.
E gli estensori di tali servizi cominciavano a essere a corto di gente su cui scrivere: iniziavano a scarseggiare attori alcolizzati, reali perdigiorno, comici depressi, rockstar incarcerate, ballerini disertori, registi eremiti, modelle isteriche, marchese indigenti, calciatori picchiatori (di mogli), golfisti adulteri e pugili stupratori. I giornalisti lanciavano la loro rete a strascico sempre più lontano finché - spesso con palese costernazione - non hanno cominciato a scrivere sugli scrittori: sugli scrittori di narrativa.
Questo modesto e forse temporaneo cambiamento di status ha comportato una serie di costi e benefici. Un narratore non è nulla senza un ascoltatore, e i romanzieri hanno cominciato ad avere quello che non potevano non desiderare ardentemente: non più copie vendute, necessariamente, ma più lettori. Ed è stato gratificante scoprire che tante persone sono effettivamente interessate alla creazione di narrativa: per dimostrarlo basta addurre il fatto che ogni più sperduto appezzamento del Primo mondo ospita ormai un allegro e chiassoso festival letterario.
AMISCon la sua interazione fra conscio e inconscio, il romanzo include un processo che nessuno scrittore, e nessun critico, comprende veramente. E nemmeno riescono a capire perché susciti tanta curiosità («Scrive a mano?», «Quanto forte preme sulla carta?»). Purtuttavia, come scrisse una volta J. G. Ballard, lettori e ascoltatori «sono i tuoi supporter, quelli che incitano la tua squadra mono-giocatore». Alleviano la solitudine a cui sei abituato, ti danno coraggio. Fin qui tutto bene: questi sono i benefici. Ora veniamo ai costi, che non credo differiscano dai costi consueti legati all'essere un personaggio in vista.
L'allargamento e l'imbaldanzimento del settore delle comunicazioni di massa ovviamente non è stato confinato al Regno Unito. E la "visibilità", come dicono gli americani, è stata concessa agli scrittori di tutte le democrazie avanzate, con varianti legate alle specificità nazionali. Nel mio Paese la situazione, come sempre, è paradossale. Nonostante l'esistenza di una tradizione letteraria di ineguagliata magnificenza (presieduta dall'unica indiscutibile divinità autoriale del pianeta), gli scrittori sono visti con studiato scetticismo: non dal pubblico, ma da critici ed editorialisti.
A volte sembra di assistere a un peculiare circolo vizioso: se è vero che gli scrittori devono ai media l'ascendente di cui godono, allora i media hanno promosso proprio le persone che più gli danno sui nervi, una folla di pretenziosi - e ormai piuttosto facoltosi - egomaniaci. Quando gli scrittori si lamentano di questa cosa - o di qualsiasi altra cosa, più o meno - li accusano di auto commiserarsi («piagnucolii da star»). Ma l'inespressa doglianza non è autocommiserazione. È ingratitudine.
copertina del libro di amisE non dobbiamo trascurare una profonda peculiarità della narrativa e delle colonne di giornale che della narrativa si occupano: una fortuita consanguineità. Per giudicare una mostra di quadri non serve cavalletto e tavolozza; per giudicare un balletto non serve indossare scarpette e tutù.
E lo stesso vale per le arti scritte: non si fa la recensione di una poesia scrivendo in versi (a meno di non essere dei deficienti) e non si fa la recensione di un'opera teatrale scrivendo un dialogo. I romanzi, però, assumono la forma della narrazione in prosa; e il giornalismo anche. Questa strana affinità in altri lidi non provoca grandi tensioni, ma si adatta meno bene, forse, a certe caratteristiche del quarto potere in versione albionica: voglia di emulare, una sorta di belligeranza costante e un istintivo senso di proprietà.
Le persone famose, nella mia patria, devono avere la massima cura di condurre una vita privata spoglia di ogni colore e complicazione. Devono anche aver cura, se non vogliono correr rischi, di avere a che fare meno possibile con l'America, vista come il quartier generale planetario dell'arroganza e dello sfarzo.
Quando io e mia moglie, che è di New York, abbiamo intrapreso l'epico progetto di cambiare casa trasferendoci da Camden Town, a Londra, a Cobble Hill, a Brooklyn, ho approfittato di ogni occasione pubblica per mettere in chiaro che le ragioni che ci spingevano a fare una cosa del genere erano esclusivamente di natura personale e familiare, e che non avevano nulla a che fare con presunte insoddisfazioni nei confronti dell'Inghilterra o del popolo inglese (che - ho rimarcato sinceramente - ho sempre ammirato per la sua tolleranza, la sua generosità e il suo ingegno).
Christopher Hitchens e Martin AmisSostenuta da numerose citazioni inesatte abbinate a imitazioni satiriche (finte interviste e cose del genere), l'impressione che si è affermata è che me ne andavo per un odio perverso nei confronti della mia terra natale e perché non tolleravo più le frecciate deliberate di giornalisti patriottici.
«Vorrei non essere un inglese»: di tutte le false frasi accostate al mio nome, questa è quella che accolgo con il più profondo sospiro di sfinimento mentale. Un'osservazione del genere - e il suo equivalente in qualsiasi lingua o in qualsiasi alfabeto - è impronunciabile da qualunque persona il cui quoziente intellettivo arrivi alle due cifre.
«Vorrei non essere un nordcoreano» un po' di senso potrebbe averla, presupponendo l'esistenza di un nordcoreano sufficiente bene informato e intrepido da pronunciare simile affermazione. Ma in altri casi e in altri luoghi una dichiarazione del genere è inconcepibilmente nulla. E dire una cosa del genere proprio dell'Inghilterra, del Paese di Dickens, Blake, Milton e Shakespeare, è perfino perverso. Una semplice stravaganza.
L'espressione "eccezionalismo americano" fu coniata nel 1929 niente meno che da Stalin, che l'additava come un'eresia (intendeva dire che l'America, come qualsiasi altro posto, era soggetta alle ferree leggi di Carlo Marx). Se questo concetto tanto sbeffeggiato ancora ha un senso dovremmo applicarlo all'atteggiamento eccezionalmente ospitale degli americani nei confronti degli stranieri (e l'America indubbiamente è stata eccezionalmente ospitale con me e la mia famiglia).
Questa è, per definizione, una società di immigrati, vasta e senza forma, e gli scrittori da sempre non sono malvisti, perché tutti comprendono, a livello subliminale, che danno il loro contribuito a costruire la sua proteiforme immensità. Curiosamente, il "secolo americano" dovrebbe durare un secolo esatto, con l'avvento dello strapotere cinese previsto per il 2045 circa. Il ruolo degli scrittori, per il momento, almeno è abbastanza chiaro: prendere la temperatura dell'America e sentirle il polso, mentre il Nuovo Mondo segue la vecchia madrepatria sulla lunga strada del declino.