Laura Tedesco per www.corriere.it
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A dieci anni esatti da quando si evirò nel carcere veronese di Montorio usando una lametta che non sarebbe mai dovuta entrare nella sua cella, il ministero della Giustizia è stato condannato a risarcirgli i danni. Lo Stato italiano dovrà rifondere all’incirca 50 mila euro - per l’esattezza 48.533 euro, cifra attualizzata al momento della decisione - a favore del detenuto per concorso di colpa nel gravissimo atto autolesionistico da lui commesso in cella.
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E questo perché, trattandosi di un soggetto notoriamente affetto da serie problematiche di tipo psichico, non sarebbe stato vigilato a dovere. Secondo i magistrati all’interno della casa circondariale scaligera si sarebbe dovuto impedire che nelle mani del detenuto giungesse «l’arma del reato», vale a dire quella lametta da lui usata per ferirsi irrimediabilmente con l’evirazione. Nei suoi riguardi, dal punto di vista della sorveglianza, si sarebbero dovute prestare le massime accortezze soprattutto perché, appena due giorni prima del «fattaccio», era già riuscito a tagliarsi i polsi.
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La sentenza di condanna pronunciata in sede civile nei confronti del ministero è definitiva e non più impugnabile: emessa in primo grado dal tribunale di Venezia e pubblicata il 30 luglio del 2019, è stata poi confermata in toto dai magistrati d’appello lagunari. Dopodiché non c’è stato neppure bisogno di attendere l’ultima parola della Cassazione, perché i termini entro cui lo Stato avrebbe potuto presentare un ulteriore ricorso agli Ermellini sono nel frattempo scaduti.
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LE MOTIVAZIONI
Nella motivazione della condanna inflitta allo Stato, si contesta in particolare alla «amministrazione penitenziaria il non aver esercitato una vigilanza idonea ad impedire al detenuto la disponibilità di una lametta». Da parte dell’avvocato Edoardo Lana, che ha tutelato gli interessi del detenuto risarcito, si sottolinea che «questa sentenza rappresenta una grande soddisfazione umana e professionale, non solo per il tema di natura assolutamente personale trattato, ma anche per la complessità istruttoria espletata nel corso dei due gradi di giudizio.
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La sentenza riequilibra una situazione di grave ingiustizia morale e giuridica che affliggeva da anni il cliente che, per vedere riconosciuta la responsabilità del Ministero della Giustizia, ha dovuto affrontare un iter processuale durato diversi anni».
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LUNGA ATTESA
In effetti, è stata necessaria un’attesa ben decennale prima di giungere a una pronuncia definitiva, se si considera che il gravissimo gesto autolesionistico risale al 17 novembre 2012, quando si evirò con quella famigerata lametta nel carcere di Verona. A sostegno della domanda risarcitoria il detenuto aveva ripercorso con il suo legale la propria storia personale, connotata da ricorrenti problemi psichiatrici e da un precedente atto di autolesionismo ai polsi, compiuto solo due giorni prima, in ragione del quale era sottoposto a regime di grande sorveglianza, deducendo la responsabilità della struttura penitenziaria, per non avergli impedito la disponibilità delle lamette.
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All’istanza risarcitoria il ministero si era opposto sul presupposto che la relazione medica del 15 novembre 2012, redatta in occasione dell’atto di autolesionismo ai polsi, aveva escluso intenti suicidiari e sostenendo che comunque la sorveglianza, pur non continuativa, era stata adeguatamente esercitata, dovendosi ravvisare quanto meno un concorso di colpa del detenuto. Diverso però il giudizio dei magistrati, secondo i quali «l’amministrazione penitenziaria non è stata in grado di adottare tutte quelle misure che, attese le specifiche ragioni di rischio, avrebbero dovuto impedire che l’appellato potesse avere di nuovo la disponibilità di una lametta».
CONDOTTA NON IMPREVEDIBILE
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Per i giudici, «la relazione della direzione della casa circondariale, datata 28 novembre 2012, dà atto del fatto che non si può escludere che le lamette siano state passate da altri detenuti nella sezione infermeria, oppure attraverso le inferriate della cella, posto che, nel corridoio antistante, erano transitati, in quella giornata, per due volte, 42 detenuti, i quali avrebbero potuto consegnare al detenuto una lametta attraverso le inferriate;
in tale contesto, non solo si deve concludere che la vigilanza fu di fatto inadeguata a prevenire il rischio di nuovi atti di autolesionismo, ma neppure può sostenersi che il comportamento del detenuto sia stato del tutto imprevedibile e come tale non evitabile, posto che, al contrario, la condotta posta in essere dal medesimo ha costituito una reiterazione, due giorni dopo, proprio del gesto posto in essere il 15 novembre 2012, rispetto al quale la vigilanza, alla quale l’amministrazione penitenziaria era tenuta, si è rivelata inadeguata».