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    “LO STATO HA UCCISO MIO FIGLIO” – LA STORIA DI JHONNY CIRILLO, IL RAPPER 25ENNE DELLA PROVINCIA DI SALERNO CHE SI È SUICIDATO IN CARCERE DOPO L’ARRESTO PER RAPINA: SOFFRIVA DI BIPOLARITÀ E, QUANDO ERA IN CARCERE, AVEVA CHIESTO IL TRASFERIMENTO IN UNA CLINICA PSICHIATRICA. GLI ERA STATO NEGATO E AVEVA COMINCIATO LO SCIOPERO DELLA FAME, DELLA SETE E DEGLI PSICOFARMACI. ALLA FINE LO HANNO TROVATO IN CELLA COL LENZUOLO ATTORNO AL COLLO. I GENITORI: “NON POTEVA STARE IN CARCERE…” - VIDEO


     
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    Jacopo Storni per "Sette - Corriere della Sera"

     

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    Quando ha compiuto 18 anni, come primo viaggio è andato a Castel Volturno. Cento chilometri di macchina per cercare la madre biologica, senza dirlo ai genitori adottivi. Quando è arrivato, ha scoperto che sua madre era una ragazza di strada con problemi di dipendenze. Ha scoperto di essere nato in una clinica dove è rimasto per i primi quaranta giorni di vita, dimenticato dalla mamma che se ne era andata e l’aveva abbandonato. Ha scoperto che sua madre si chiamava Fatima, così almeno gli avevano detto, e quel nome se l’è tatuato sull’avambraccio.

     

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    Giovanni Cirillo è cresciuto così, l’ombra delle radici che non gli ha dato mai tregua. L’istinto di fuggire, forse da sé stesso, dal suo passato di dolore, dal presente a cui sentiva di non appartenere completamente. In perenne ricerca della sua identità. Giovanni si è suicidato nel carcere di Salerno il 26 luglio 2020. Aveva 25 anni. Sguardo dolce e ardente insieme. Anima alla deriva. Aveva già tentato di togliersi la vita quando era in libertà. Era andato alla stazione e stava per buttarsi sotto un treno in corsa. Un passo indietro all’ultimo tuffo, poi la corsa disperata in mezzo alla città, alla fine la rapina in gioielleria. Così è stato arrestato.

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    La malattia

    Soffriva di bipolarità, la sua malattia era certificata. Quando era in carcere, aveva chiesto il trasferimento in una clinica psichiatrica. Gli era stato negato, allora aveva cominciato lo sciopero della fame, della sete e, soprattutto, degli psicofarmaci. Poi non ha più retto. E si è ucciso. L’hanno trovato in cella col lenzuolo attorno al collo. «Lo Stato ha ucciso mio figlio» dice la madre adottiva Angela Di Somma. Non si dà pace, come suo padre Antonello Cirillo: «Il carcere dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, invece il carcere è un luogo di morte».

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    I numeri

    Uno dei tanti suicidi tra le sbarre: uno ogni quattro giorni nel 2022. Nei primi dieci mesi di quest’anno sono stati 74 i suicidi in carcere, 35 in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Sul caso Cirillo è in corso un’indagine della Procura. «Mio figlio doveva usufruire dell’alta sorveglianza, gli agenti avrebbero dovuto controllarlo ogni venti minuti». La disposizione del servizio, secondo l’ipotesi del magistrato, «non fu mai eseguita non risultando annotata nel registro di reparto di detenzione né il 24 luglio, né nei giorni successivi». Secondo i genitori «Giovanni non doveva e non poteva stare in carcere, c’erano perizie psichiatriche che appuravano la sua incompatibilità con il regime carcerario, tutto ciò è stato ignorato».

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    Sono passati due anni, ma nella casa di Angela e Antonello tutto parla ancora del figlio. Le pareti piene di foto: c’è Giovanni alla recita di scuola, ha 10 ed è vestito da diavolo; Giovanni che ride di fronte alla torta della prima comunione; Giovanni col padre in riva al mare, agosto 98, Cirò Marina; Giovanni a 5 anni che fa l’albero di Natale con la mamma. Poi Giovanni cresce. Quel giorno verso Castel Volturno, alla ricerca di una madre mai conosciuta, forse Giovanni ha ripensato al suo passato. Alla sua storia di tormento.

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    Vita di passione

    Tormento ed estasi, così ha vissuto la sua vita estrema. «Questo ci consola» raccontano i genitori «perché nostro figlio ha vissuto ogni giorno come fosse l’ultimo». Aveva un mese e mezzo quando fu adottato e portato via da quella clinica sul litorale domizio. «Eravamo sposati da tre anni, non riuscivamo ad avere figli e nacque l’idea dell’adozione». Il destino li porta in quella clinica. Amore a prima vista. Tornano a casa insieme a lui. Si chiamava col nome che gli aveva dato la madre: Mohamed Andrea. La pelle nera, origini somale. «Abbiamo vissuto a Scafati, paesino di pochi abitanti in provincia di Salerno.

     

    Quando nostro figlio era nel passeggino, le altre mamme sottolineavano il colore della sua pelle». Erano parole affettuose, ma non sempre Giovanni le viveva con gioia. Quelle parole, a volte, rimarcavano la sua diversità e lui soffriva. Così pure nei primi anni di calcio. «I giocatori dell’altra squadra lo chiamavano straniero, lui però si sentiva italiano». Qualcuno lo chiamava “negro”. Ha vissuto un’infanzia felice, ma nell’adolescenza qualcosa si spezza. E comincia a bere. E poi a usare sostanze. Un baratro fulmineo, nel cuore della maturità.

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    Però la musica prova a salvarlo. Diventa rapper. Scrive canzoni, sfoga frustrazioni. I suoi testi sono rivelazioni: «Ho fatto sempre il massimo, non è servito a niente, per lo Stato sono un parassita». Nelle sue canzoni emerge il senso di fallimento, il non sentirsi accettato: «Ricordo i pianti in treno col cappuccio in testa, le cuffie e la playlist, mi sentivo una merda».

     

    I fantasmi

    Talvolta Giovanni era inaffidabile. Fissava gli appuntamenti ma li bucava, doveva suonare alle serate ma non ci andava. Eppure era ricercato dalle case discografiche. Scriveva testi che andavano forte, ma quando arrivava il momento di fare sul serio, si tirava indietro. Come se avesse paura di sé stesso. Era eccentrico, l’adrenalina nelle vene. Era un vulcano, ma a volte si bruciava con la sua stessa lava. Amato da tanti, euforico all’improvviso e il minuto dopo disperato. Si chiamava Mohamed Andrea ma un giorno, alle scuole medie, cambiò nome e all’anagrafe diventò Giovanni. «Come il nome di suo nonno» ricorda la madre.

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    Era felice di aver cambiato nome, non voleva che gli altri lo chiamassero Mohamed, quel nome arabo rimarcava il suo essere straniero. Quando arrivava l’estate, a volte si vergognava ad andare in spiaggia, aveva paura di essere scambiato per un venditore ambulante. «Si era accorto che tutte le persone di colore avevano un ruolo marginale nella società». Rifiutava i programmi Tv sulla Somalia. Mohamed è diventato Giovanni, poi Giovanni è diventato Jhonny, il rapper campano.

     

    Per strada veniva fermato, le sue canzoni spaccavano. Si raccontò in una videointervista che circola ancora sul web. «A 11 anni mi chiamavano “negro”, all’inizio stavo male, poi è diventata un’abitudine, mi sono fatto domande sulle mie origini, nella mia famiglia erano tutti bianchi ma io ero nero».

     

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    L’inizio della fine

    A 19 anni la caduta. «Mi sono avvicinato all’alcol per gioco, quando bevevo mi sentivo fuori dagli schemi, l’alcol mi dava autostima, riuscivo a stare al centro dell’attenzione, non ero più incompreso». L’ebbrezza per mascherare il vuoto. Poi la cocaina, il ricovero in clinica psichiatrica, la fuga, i furti e le violenze in casa, la rapina, la fuga dai carabinieri, la caduta da un balcone, il ricovero in ospedale, il carcere, i domiciliari. Però si pente, tenta di ripartire attraverso una comunità di recupero. La consapevolezza nelle sue parole: «Chiedere aiuto non è una vergogna, si può sempre rimediare, ai giovani di oggi dico di stare lontano dalle sostanze. Sono seguito da uno psicologo, non è una vergogna. Mi ha tirato fuori tanta m....

     

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    A volte mi blocco a pensare a come ero due anni fa e come sono adesso, è davvero un sogno». Nel video ringrazia i genitori, che non l’hanno mai abbandonato e hanno sempre creduto in lui. E la musica, le parole in note: «Dimostrerò a me stesso che ce la farò, anche se sono stanco non mi fermerò». Sul volto si fa tatuare due parole: “Remember” per ricordare i suoi errori. E poi “Sad” perché spesso si sentiva triste. Ma la rinascita è un’illusione e l’illusione dura poco. Nel gennaio 2020 rapina una farmacia, vuole gli psicofarmaci. Torna agli arresti domiciliari, ma non li rispetta. Torna in carcere. Il ritorno in cella è fatale.

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    Quel giorno

    È l’ora di pranzo del 26 luglio 2020. «È venuto a casa nostra l’avvocato di Giovanni, seguiva altri detenuti nel carcere di Salerno e qualcuno di loro gli aveva detto che era accaduto qualcosa di terribile» racconta la madre. Partono le telefonate al carcere, nessuno fornisce informazioni precise. I genitori di Jhonny arrivano fuori dal penitenziario. Nessuno li riceve, poi qualcosa si sblocca, incontrano la direttrice, ormai la realtà è chiara. Angela scoppia a urlare. Non le fanno vedere il corpo, dovrà aspettare l’autopsia nei giorni successivi. 

     

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    Al funerale il parroco don Peppino De Luca è stato tagliente: «Giovanni lo abbiamo ucciso noi, ogni volta che lo abbiamo giudicato per il colore della sua pelle, ogni volta che lo abbiamo giudicato per le sue azioni dimenticando la sua malattia, ogni volta che è stato indicato sui giornali come il rapper della rapina dimenticando il dolore della famiglia. Ad Angela ed Antonello la nostra stima e il nostro abbraccio: avete fatto di tutto, lo avete partorito decine di volte. Ora è nelle mani di Dio. Giovanni Cirillo. Figlio nostro».

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    L’associazione

    Adesso Angela e Antonello, tramite l’associazione Emmaus di cui fanno parte, seguono il progetto del giardino urbano “Jhonny Cirillo”, a Scafati, uno spazio aperto alla città, con teatro e luoghi d’incontro, progettato dall’architetto Pio Lorenzo Cocco, amico di infanzia di Giovanni, un’area dedicata e gestita dalle persone che hanno voglia di ricominciare la propria vita, detenuti che possono usufruire della messa alla prova. «Per dare loro una seconda possibilità» dicono Angela e Antonello. «Una seconda possibilità che al nostro Giovanni non è stata concessa»

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