Antonio Riello per Dagospia
marina abramovic entrance
Nel Giugno del 1977 i visitatori della Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna si trovarono all’ingresso due persone nude che funzionavano da “porte girevoli umane”. Era una performance (“Imponderabilia”) ma le italiche autorità costituite dell’epoca fecero chiudere tutto interpretando la faccenda come un minaccioso caso di “oscenita’ in luogo pubblico”.
I due in costumi adamitici erano una certa Marina (cittadina yugoslava) e un signore tedesco che si faceva chiamare Ulay (all’anagrafe Frank Uwe Laysiepen), entrambi conosciuti solo in una stretta cerchia di addetti ai lavori.
marina abramovic relation in time
Oggi la signora Marina (nata a Belgrado nel 1946, figlia di Vojin e Danica Abramovic) ha una grande personale alla Royal Academy di Londra (tra l’altro è anche membro onorario dell’Accademia stessa oltre che membro dell’Ordine delle Arti e delle Lettere di Francia). Fin dai primordi della sua carriera artistica Marina trova nei linguaggi del corpo il suo cavallo di battaglia.
Ben si sa che tutta l’Arte Contemporanea oscilla, in un fragilissimo e perpetuo equilibrio, tra sublime e ridicolo. Ma di certo la performance è in assoluto il più rischioso dei linguaggi: una disastrosa e imbarazzante goffaggine/perdita di tensione è sempre in agguato. La Abramovic, la Gran Signora della Performance, non ha praticamente mai sbagliato. Una disciplina ferrea e una indomita passione sono gli ingredienti essenziali. Ha sempre saputo dominare alla perfezione le possibilità e i punti critici di questo difficilissimo strumento.
rest energy
Lo ha fatto quanto ha messo in gioco la propria resistenza fisica e psichica, portandole entrambe ai propri limiti. I suoi lavori fatti a-quattro-mani con Ulay negli anni 1975-1988 sono diventati Epica dell’Arte Contemporanea. Basta pensare, tra i video in mostra a Londra, a “Relation in Time” (1977), quando legano assieme dorso-contro-dorso i propri capelli per 16 ore, oppure con “Rest Energy” (1980) quando con arco e frecce si esibiscono in un pericoloso atto di equilibrismo. Oppure ai faticosi ed avventurosi trekking lungo parte della Muraglia Cinese.
La Abramovic anche lavorando da sola (a partire dal 1989) ha saputo trasformare la performance in una concreta esperienza collettiva. Qualcosa di condivisibile e sempre più coinvolgente. E qualcosa in grado di testimoniare determinati momenti della Storia, come “Balkan Baroque” (1997) presentato alla Biennale di Venezia dove vinse il Leone d’oro. Si trattava di un opera/performance in cui l’artista puliva, in una interminabile laboriosa corvée, un grande mucchio di ossa. Dedicato alle vittime degli stermini etnici della ex-Yugoslavia.
marina abramovic lievitazione santa teresa
Importante ed epocale anche “Seven easy Pieces” (2005) realizzata per il Guggenheim Museum di New York, consacrò il suo profilo internazionale. Alla RA ci sono, a turno, delle performance dal vivo (non con lei ma con dei suoi studenti): Imponderabilia (1977, sì quella di Bologna), “Nude with Skeleton” (2002) e “The House with the Ocean View” (2002).
Il suo percorso procede nel tempo verso una sorta di mistica della Natura. I materiali diventano decisamente importanti (almeno altrettanto quanto l’azione) e il corpo diventa piuttosto un tramite per dialogare con i campi di energia (sia fisici che mentali). Molte le opere legate a questo periodo qui alla RA. Ci sono anche due misteriosi e giganteschi vasoni neri.
Il suo eclatante portale illuminato sembra avvicinarsi ad atmosfere New Age (il “potere delle pietre magiche” diventa un elemento importante e si finisce per sfociare quasi nell’esoterismo).
marina abramovic antonio riello
Nel frattempo per lei iniziano con successo, e sempre più frequenti, le incursioni nel campo dell’Opera e del Teatro (del 2020 un suo grande lavoro su Maria Callas). Non disdegna neppure le tecnologie più all’avanguardia, realizza infatti “The Life” (2019) per la Sepentine Gallery di Londra, dove oggetti reali e mondi digitali si avvitano magnificamente l’uno sull’altro.
Ha vissuto, dopo Belgrado, ad Amsterdam e poi si è spostata a New York dove ha fondato, nel 2010, the Marina Abramovic Institute, che ha lo scopo di formare giovani artisti nelle pratiche della performance. Ultimamente passa molto tempo anche in Europa.
La Abramovic è senza dubbio oggi una venerata icona femminile dell’Arte Contemporanea. Una sorta di divinità artistica. Una semi-dea forse. O almeno un oggetto di culto (anche grazie alla sua personalità, assolutamente fuori dal comune). Il suo lavoro è rappresentato in Europa dalla Lisson Gallery di Londra e dalla Galleria Lia Rumma di Napoli.
Questa mostra molto ben sviluppata (curata da Andrea Tarsia) non trascura nessun aspetto di una complessa attività che scorre su circa cinquant’anni.
marina abramovic 10
L’acme della sua creatività sembra abbastanza evidente sia stato tra gli anni 70 e la fine degli anni 90 (anche se l’opera “Lievitazione di Santa Teresa” del 2009 è senz’altro ancora un lavoro potentissimo).
Una nota finale va fatta sul furioso merchandising che chiude il percorso espositivo. Bello e accessibile. La federa del cuscino è irresistibile, ma non solo quella. Difficile uscirne senza un souvenir (che forse – magari – potrebbe avere anche dei miracolosi poteri taumaturgici).
MARINA ABRAMOVIC
Royal Academy of Arts
Burlington House, Piccadilly
Londra W1J 0BD
Fino al 1 Gennaio 2024
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