Lucetta Scaraffia per "la Stampa"
lucetta scaraffia foto di bacco
Mentre forse si stava placando l'indignazione per la professoressa romana che ha osato apostrofare una studentessa poco vestita evocando la via Salaria, dove si trovano spesso le prostitute, ecco che un professore - giovane, ma forse con il torto di insegnare lettere classiche, quindi tendenzialmente antiquato - ha cercato di venire in aiuto alla collega con un post su Facebook. E anche il post era antiquato: parlava di preghiera e di genitori che dovrebbero intervenire nelle scelte di abbigliamento delle figlie, due cose ormai decisamente scomparse.
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Ma il giovane docente non affermava certo ciò che tutti hanno voluto attribuirgli: ha scritto nel suo post che le ragazze erano vestite «come» troie, non già che erano troie, e chiunque conosca la lingua italiana sa che sono due cose molto diverse. Per chi poi non lo sapesse, l'uso del termine «troia» è terribilmente à la page, di continuo sulla bocca di tutti gli adolescenti - femmine e maschi, se ancora si può dire così - e fa parte di un turpiloquio ormai usuale, e al quale peraltro nessuno cerca più di porre rimedio anche perché, essendo distribuito equamente fra maschi e femmine, è per questo rispettoso del politically correct.
Forse grazie all'uso di un termine così alla moda quel giovane professore poteva essere perdonato, o almeno consegnato all'oblio. Invece è scoppiata una bagarre ancora peggiore che nel caso della professoressa. Associazione dei presidi e sindacati hanno auspicato il pronto licenziamento, e sul Corriere della Sera è stato dipinto come un vero e proprio diavolo: una anonima alunna ha rivelato che si rifiutava perfino di mettere la mascherina. Innanzi tutto un'osservazione sull'anonimato con cui sono stati coperti tutti i protagonisti della vicenda fin dall'inizio.
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Si può ben capire che non si faccia il nome della ragazza, ma non è chiaro perché i giornali tacciano il nome dei due insegnanti accusati, che diventano così più facilmente stereotipi dell'odio contro la libertà delle donne. Anche se, a ben vedere, nessuno dei due - pur se si può eccepire una comune inopportunità nel loro linguaggio - ha insultato personalmente la studentessa.
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Mi sembra dunque più che altro un caso montato ad arte, che tuttavia allude a problemi certamente gravi, come il comportamento da tenere a scuola, che comprende anche un certo codice di abbigliamento. E aggiungiamoci pure la disperazione dei docenti che non sanno più come arginare una certa arroganza degli studenti, i quali con troppa facilità tendono oggi a trasformare ogni loro desiderio in un diritto. La scuola non sarà mai un'istituzione rispettata, dove si va per ascoltare e per imparare, se non vi si riesce a imporre un minimo di decenza nel modo di vestire degli studenti.
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Perché mai i giovani non dovrebbero capire che la libertà non consiste nell'andare a pancia nuda, in calzoncini o in altre fogge stravaganti, bensì nella possibilità di insegnare, di apprendere e di discutere, appunto, in piena libertà? Un'ultima cosa. Se in una società in cui la pubblicità, le mode - che sono certo tante, ma tutte molto cogenti (e qui mi rivolgo a Michela Marzano) - le trasmissioni televisive e i social insegnano univocamente che nella nostra vita moltissimo dipende dalla nostra immagine, dal modo in cui ci vestiamo, o meglio dire ci travestiamo, per costruirci una personalità, come si fa a dire che «l'abito non fa il monaco», e che quindi ognuno può vestire a suo modo senza conseguenze?
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Lo confesso: quando io andavo a scuola ero obbligata a indossare il grembiule - certo, imposto solo alle ragazze, benché anche i ragazzi fossero costretti a vestirsi secondo codici rigidi - ma quel grembiule aveva il grande merito di essere molto democratico: rendendo uguali ricche e povere, e in una certa misura uniformando belle e brutte, ci costringeva a emergere con la nostra personalità vera, quella che stavamo costruendo attraverso un solido itinerario, non ricorrendo a travestimenti più o meno opportuni.
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Sì, ho nostalgia del grembiule, che ha permesso per decenni alle ragazze di sentirsi uguali ai compagni nello studio e nella valutazione, che ha allontanato da loro ogni pericolo di giudizi basati sull'avvenenza o sulla presunta condotta sessuale. Certo, sarebbe meglio che questi risultati si ottenessero anche senza ricorrere al grembiule, sono d'accordissimo. Ma ho il sospetto che le pance nude, i balletti su TikTok, le trasgressioni esibite non siano segnali di conseguita libertà ma servano solo a resuscitare lo spettro di antichi pregiudizi. Quelli che tutti noi vorremmo sepolti e dimenticati.