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    LUCI-SANO DELLA RIBALTA - IL PRODUTTORE A 90 ANNI RACCONTA ANEDDOTI GUSTOSISSIMI E CRUDELI: '''IL TASSINARO' DI SORDI? UNA NOIA MORTALE. ALBERTO FECE CERTI SALAMELECCHI AD ANDREOTTI… NESSUNO OSAVA DIRGLI CHE NON SI DOVEVA CIMENTARE NELLA REGIA'' - ''TROISI? I GIOVANI SONO TERRIBILI. QUANDO LO INTERVISTARONO DISSE…'' - IL 'NO' A 'RAMBO', IL PRIMO BUD SPENCER E TERENCE HILL CEDUTO A UNA CIFRA IRRISORIA. ''IL CASO BRIZZI? FORSE QUALCOSA DI VERO C'È, MA MI RICORDA UNA STORIA VECCHIA: VENNE UNA RAGAZZA E SI SPOGLIÒ DAVANTI A ME. IO LE DISSI…''


     
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    Malcom Pagani per Vanity Fair

    fulvio lucisano fulvio lucisano

     

     Fino a un paio d’anni fa, dice il novantenne Fulvio Lucisano: «Non mi ero accorto di essere così vecchio. Sciavo regolarmente e salivo in moto. Ora che Paola e Federica, le mie figlie, me l’hanno sequestrata mi tocca pedalare clandestinamente in bicicletta». Fondò la IIF, 600 film prodotti o distribuiti, nell’agosto del 1958.

     

    Da allora, nell’epopea di un cinema inclassificabile in cui il genere (l’horror e il fantascientifico, il giallo e la farsa, i poliziotteschi e le commedie sexy) si è affiancato ai premi Oscar e alle avventure con Ferreri, Zeffirelli e Comencini, molti incontri, qualche litigio e ondate di ricordi che indietreggiano e avanzano come una marea: «Per Due marines e un generale con Franco e Ciccio, andai a ingaggiare Buster Keaton in America».

     

    Più Viale del tramonto che Luci della ribalta: «Keaton aveva superato i 70 da un pezzo e qualche impellente necessità economica. Prese 20 mila dollari, ma fu molto professionale. “Questi due hanno talento”, diceva di Franchi e Ingrassia, magari appaiono un po’ naïf, ma sono molto bravi».

     

    Era un po’ naïf anche lei?

     

    pietro valsecchi fulvio lucisano neri parenti pietro valsecchi fulvio lucisano neri parenti

    «Volevo fare l’avvocato come mio padre, ex seminarista cresciuto con 16 fratelli e tornato dalla guerra, dove era stato assistente del supremo tribunale militare, incazzatissimo con il re che non aveva proclamato lo stato d’assedio contro il duce. “È un vigliacco”, diceva. A casa erano tutti antifascisti, a partire da mia nonna, una calabrese analfabeta che veniva dall’Aspromonte ma aveva le idee chiare: “Ma questo Musolino, esattamente, cosa vuole?”».

     

    Lei che cosa voleva?

     

    «Rendermi indipendente. L’occasione me la diede un produttore americano, Samuel Bronston. Nel ’49 lo vidi spuntare nell’ufficio di mio padre. Cercava aiuto per girare un documentario sull’Anno Santo. Pagavano benissimo. Tre volte lo stipendio di un impiegato. Cercai di farmi ingaggiare, ci riuscii e da allora indietro non sono più tornato».

     

    Pochi anni dopo fondò la IIF.

     

    «Per poter lavorare in autonomia e distribuire i film che producevo. Mi chiudevano sempre le porte in faccia, così riunii alcuni agenti regionali e partimmo».

     

    Fu per reazione?

     

    «Alla Titanus, per dire, neanche mi ricevevano. Goffredo Lombardo, il capo, dal suo trono ci guardava con aria di sufficienza. Era piccolo e basso, Lombardo. Ma sul trono sembrava altissimo».

     

     

    All’epoca il cinema italiano era un’industria fiorentissima.

     

    ANDREOTTI E MAURIZIO COSTANZO A BONTA LORO NEL RIQUADRO ANDREOTTI NE IL TASSINARO CON ALBERTO SORDI ANDREOTTI E MAURIZIO COSTANZO A BONTA LORO NEL RIQUADRO ANDREOTTI NE IL TASSINARO CON ALBERTO SORDI

    «Si producevano più di 300 film all’anno. Si sperimentava. C’era febbre, fame, curiosità».

     

    Lei conobbe bene Andreotti. Per alcuni censore senza fantasia, per altri, tra tutti lo sceneggiatore Rodolfo Sonego, un benemerito: «Non avete capito niente, Andreotti forse ha ucciso 5 film, ma ha permesso di realizzarne 5.000».

     

    «Sonego, un comunista intelligente, aveva capito. Avrebbero dovuto fare tutti un monumento ad Andreotti. Da sottosegretario con delega allo spettacolo fece approvare una legge in cui gli americani erano costretti a lasciare il 50 per cento dei proventi dei loro film in Italia».

     

    Una manna.

     

    «Poi arrivò quel coglione del suo successore e la legge venne massacrata. Dino De Laurentiis per protesta lasciò l’Italia e fece bene».

    SORDI IL TASSINARO SORDI IL TASSINARO

     

    Lei è l’ultimo esponente dei capitani coraggiosi che come Ponti e De Laurentiis segnarono una stagione del cinema italiano.

    «Dino era un mio amico. Pensi che l’ultima telefonata, prima di morire, la fece a me. Persi la chiamata e non risposi. Il giorno dopo non c’era più il tempo».

     

    Che uomo era?

     

    «Un personaggio difficile che a stare zitto proprio non riusciva. Nel 1992 comprai Indocina, un film che aveva vinto l’Oscar per il miglior film straniero e che prima di distribuire ero intenzionato a tagliare perché troppo lungo. Mi serviva il permesso del regista, Régis Wargnier, e così con mille diplomazie lo invito a Roma per parlarne. Sulla porta della moviola incontriamo Dino, che senza chiedere permesso si siede con noi e comincia a commentare il film ad alta voce: “Questa scena è inutile, quest’altra è leziosa, qui c’è un controcampo di troppo” e così via. Wargnier si innervosisce e alla fine se ne va irritatissimo decidendo di non tagliare neanche un secondo. Piano miseramente fallito, il mio».

     

    Le è capitato spesso?

     

    «È la vita. Vinci, perdi, pareggi. A volte hai intuizioni luminose e altre fai delle cazzate veramente plateali».

     

    Esempi?

     

    BUD SPENCER TERENCE HILL BUD SPENCER TERENCE HILL

    «Mi offrirono il primo Rambo a una cifra irrisoria. Vidi il film e lo trovai stupendo, ma c’era una carica di violenza così profonda che non me la sentii. Esitai nel comprarlo e ancora me ne pento».

     

    Ha altri rimpianti?

     

     «Nel 1969 avevo prodotto Dio perdona... io no!, il capostipite di tutta la saga con Bud Spencer e Terence Hill, ma il regista Giuseppe Colizzi, con il quale avevo rapporti burrascosi, mi indusse a cedergli i diritti del film per 50 milioni. Non ero del tutto persuaso, ma mi feci convincere da mia moglie: “Prendi i soldi, che ti importa?”. Il film uscì e incassò un miliardo e 200 milioni dell’epoca. Praticamente lo regalai. Terence Hill iniziò così, per caso. L’attore che avevamo scelto si ruppe la gamba, anzi venne scaraventato giù dalle scale da una fidanzata gelosa e fummo costretti a sostituirlo».

     

    Con i registi ha avuto rapporti faticosi?

     

    «Se il regista non si monta la testa è un conto, ma quando se l’è montata non lo recuperi più. In certe occasioni capitava di litigare. Con Marco Ferreri, per Diario di un vizio, discutemmo aspramente sulla scelta degli attori. Su Sabrina Ferilli eravamo entrambi d’accordo, invece Jerry Calà proprio non mi convinceva».

     

    MARCO FERRERI MARCO FERRERI

    Diario di un vizio, il penultimo film di Ferreri, andò a Berlino in concorso e venne fischiato. Ferreri tenne la conferenza stampa da Roma in pieno stile Ferreri: «Sono un genio. Se fossi nato adesso sarei uno di quei bambini superdotati che sono padroni di tutte le discipline dell’universo. E infatti ho fatto film superdotati».

     

    «Marco un genio lo era davvero, ma era anche intrattabile e molto presuntuoso. Gli suggerivo una soluzione e lui diceva solo: “Nun se po ffà”. Mi trattava come un bambino».

     

    Diario di un vizio fu anche il penultimo film di Ferreri.

     

    «Feci anche uno degli ultimi film di Comencini dopo essere stato in causa con lui per vent’anni. Girammo in Calabria, con Volonté e Abatantuono, anche se Comencini di girare in Calabria non voleva saperne: “Ambientiamolo a Calcata, a Sud rischiamo che ci rapiscano tutti”. Per rassicurarlo dovetti portarlo da Lessona, il prefetto di Reggio, figlio di un ministro delle colonie fasciste».

     

    Lei è del 1928. Il fascismo l’ha vissuto in pieno.

     

    «Le botte che mi diedero i fascisti davanti all’edicola quando mi sorpresero a comprare L’Osservatore Romano me le ricordo ancora e non mi sono dimenticato di quel tipo che uscì per le strade di Roma in camicia nera, come se niente fosse, il 25 luglio del ’43. Volevano linciarlo. Lui correva e intanto si girava verso gli inseguitori gridando: “Ma che volete?”. Non aveva ascoltato la radio e nessuno aveva avuto la grazia di avvertirlo».

    nino manfredi monica vitti alberto sordi nino manfredi monica vitti alberto sordi

     

    A proposito di figli del ’900. Lei lavorò a lungo con Alberto Sordi.

     

    «Dopo un paio di film a tinte malinconiche, Alberto doveva tornare a far ridere. Così convocai Age e Scarpelli e mettemmo in piedi Il tassinaro. Sordi guidava Zara 87 e tra un semaforo e l’altro ascoltava le storie dei suoi passeggeri, dal marito in crisi ad Andreotti. La comparsata del divo Giulio era prevista per il primo agosto. Lo avevo avvertito: “Saremo cattivissimi con te”. E lui, da uomo di mondo, aveva risposto soltanto: “Mi fido di voi”.

     

    Una volta sul set però, Sordi, che per Andreotti aveva una venerazione, si mise sull’attenti. Batté letteralmente i tacchi e tagliò di sua iniziativa la battuta “Presidente, quanto è veloce a occupare i posti” che avevamo scritto per l’occasione. Il cameo si rivelò, un po’ come il film, di una noia mortale. Avrebbe dovuto graffiare, ma era tutto un salamelecco.  Un inchino. Un’occasione mancata».

     

     Perché?

    «Perché nessuno diceva a Sordi, che come tutte le divinità aveva una sua corte di yes­man: “Alberto, sei un grande attore, ma non dovresti cimentarti nella regia”. Qualsiasi fesseria facesse scattava l’applauso. Fellini, altro ospite prestigioso del film, l’aveva capito. Ci promise: “Se lo fa Andreotti lo faccio anche io”. Mantenne la parola, ma una volta sul set, resosi conto della trappola, ci disse: “Mi avete fregato”».

     

    Il Sordi uomo? Avaro come raccontano?

     

    «Testardo sicuramente, avaro forse. Effettivamente saremo andati a pranzo un milione di volte e mai che abbia pagato un caffè».

     

    Lucisano, la critica non era benevola con i suoi film.

     

    «Hanno sempre sparato a zero, ma non me ne è mai importato niente».

    tarantino tarantino

     

    A Venezia, durante una retrospettiva che le dedicò la Biennale, Quentin Tarantino venne a salutarla. Sotto il braccio aveva la pizza di Cosa avete fatto a Solange?, uno dei suoi gialli prodotto all’inizio degli anni ’70.

     

    «Ci sono state riscoperte tardive e oggi film come quello o Terrore nello spazio di Bava sono incensati. Per Nicolas Winding Refn Terrore nello spazio è pura Pop art. Con Bava che era figlio di Eugenio, un vero maestro, faceva film sottili e inquietanti e nella vita aveva paura anche della sua ombra, discutevamo spesso, ci appassionavamo e parlavamo fino a notte. Oggi non succede più. Oggi si mandano le mail».

     

    Lei produsse anche Ricomincio da tre di Massimo Troisi. 15 miliardi di incasso.

     

    «Insieme a Ottavio Jemma, il vero sceneggiatore del film, suggerii a Troisi di ripetere le battute due volte perché alla prima, il napoletano era così stretto da risultare incomprensibile. Troisi era giovane, non facilmente indirizzabile. Gli presentai Sordi e convinsi Alberto a concedere un’intervista in cui lodava lui e la nuova comicità napoletana. Passano due mesi e finalmente tocca anche a Troisi concedere un’intervista. Gli domandano di Sordi e lui: “È un vecchio trombone”. I giovani sono terribili».

     

    Il cinema italiano si è perso?

     

    LELLO ARENA MASSIMO TROISI 8 LELLO ARENA MASSIMO TROISI 8

    «Dall’80 in poi, con l’avvento delle tv commerciali, ha subìto un notevole peggioramento. Ci sono talenti come Max Bruno che mi permettono di non disperare però».

     

     Il film più difficile della sua vita?

     

    «Il giovane Toscanini di Zeffirelli. Costò molto più di quanto incassò, ma per contenere Zeffirelli ci sarebbe voluta la mano di Dio. Ci feci certe litigate in Portogallo, con Franco, che tremavano le mura dell’albergo. Liz Taylor, poi, sembrava la principessa sul pisello. Altera, scostante, si dava arie insopportabili. Io non capivo. Pensavo: ma come? Ti do un sacco di soldi, vuoi almeno dire buongiorno?».

     

    Altri caratteri difficili?

     

    «Massimo Girotti. In uno dei miei primi film, I quattro del getto tonante, aveva un pessimo rapporto con l’attrice protagonista. Era sempre incazzato. “Mi sono stufato di questa cretina”, urlava fuori dall’albergo. “Se voglio, io lo metto nel culo anche al cavallo che sta in piazza”. “Massimo, il cavallo è di bronzo”, rispondevo. “Mi sembra imprudente”».

     

    Zeffirelli Zeffirelli

    Lei ha lavorato anche con Fausto Brizzi. Cosa pensa delle accuse di molestie che lo hanno investito prima di vederlo assolto?

     

    «Che forse qualcosa di vero poteva anche esserci, ma per saperlo senza ombra di dubbio bisognerebbe esser stati lì. A metà degli anni ’60, per dirle quanto è antica la storia, venne da me in ufficio una ragazza bellissima. Si sfilò l’impermeabile e restò nuda. Rimasi imperturbabile: “La ringrazio signorina, ma le consiglio di rivestirsi. Mia moglie è al piano di sopra e potrebbe scendere in qualsiasi momento”» (ride).

     

    Dove si vede tra vent’anni?

     

    brizzi brizzi

    «All’altro mondo».

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